Il regista Danny Boyle e lo sceneggiatore Alex Garland si riuniscono con 28 Anni Dopo, il nuovo capitolo post-apocalittico sugli infetti, al cinema dal 18 giugno. Protagonisti questa volta Jodie Comer, Aaron Taylor‑Johnson, Ralph Fiennes e il giovane Alfie Williams.

Trama: Sono passati 28 anni da quando il virus della rabbia è fuoriuscito da un laboratorio di armi biologiche e ora, ancora in una quarantena forzata, alcuni sono riusciti a sopravvivere in mezzo agli infetti. Un gruppo di sopravvissuti vive su una piccola isola collegata alla terraferma da un’unica strada rialzata ed estremamente protetta. Quando uno di questi lascia l’isola per una missione diretta nella terraferma, scoprirà segreti, meraviglie e orrori che hanno mutato non solo gli infetti ma anche gli altri sopravvissuti. 

Un horror post-apocalittico realizzato a 23 anni di distanza dal primo film (nel film sono 28), i protagonisti vivono in quarantena e si avventurano il meno possibile verso le terre che circondano la loro isola sicura. Il primo film, 28 giorni dopo (2002), aveva definito un nuovo standard per il cinema horror postmoderno. Era riuscito a rivisitare il classico film sugli zombi parlando dell’essere umano in termini più radicali, senza rassicurare né semplificare. È stato un film innovativo per il genere, con uno stile visivo brutale e poetico allo stesso tempo. La collaborazione tra Danny Boyle e Alex Garland ha dato vita a un’opera che non solo ha ridefinito l’iconografia degli infetti, ma ha anche rilanciato il cinema horror britannico non soltanto mainstream.

Uno degli aspetti più affascinanti del film risiede nell’alchimia creativa tra due personalità artistiche apparentemente antitetiche come Danny Boyle e Alex Garland. La tensione tra l’approccio viscerale di Boyle, fatto di un’estetica cinetica e sensoriale, e la scrittura cerebrale, quasi filosofica, di Garland, non si risolve in una sintesi piatta, ma trova un raro equilibrio che diventa la cifra distintiva dell’opera. Il film non solo armonizza le loro sensibilità divergenti, ma sembra condensare, in forma cristallina, le istanze più profonde e riconoscibili del loro cinema. Boyle ha saputo spesso reinventarsi nel corso della sua carriera, anche se Trainspotting (1996) resta ancora oggi il suo capolavoro. Non ha mai avuto paura di contaminare i generi, e si può dire lo stesso di Garland perché non ha mai scritto fantascienza o horror per puro intrattenimento (Ex Machina e Annientamento sono particolarmente filosofici). Le loro collaborazioni quindi riescono a essere al contempo viscerali e cerebrali, coinvolgenti e destabilizzanti.

Danny Boyle a Roma durante la conferenza

Danny Boyle ha presentato il suo nuovo film a Roma l’11 giugno al prestigioso Cinema Barberini, dove ha tenuto un’interessante conferenza stampa dopo la proiezione (grazie a Sony Pictures). Mostrandosi come al solito disponibile e divertito, ha confermato l’intenzione di voler procedere con questa nuova trilogia. Un progetto che Boyle e Garland inseguivano già dal 2010, tre anni dopo il sequel 28 Settimane Dopo, di cui Boyle era soltanto produttore esecutivo. Nel corso degli anni sembravano aver abbandonato il progetto, ma dopo il periodo pandemico hanno voluto concretizzarlo, spinti da un’ulteriore consapevolezza. 28 Anni Dopo, senza appesantire troppo la visione, riesce a portare su schermo diversi temi, dalla Brexit al post-contagio, e Boyle lo fa condensandoci tutto il suo stile, con scelte musicali tipiche del suo cinema e momenti più giocosi dove riesce a metterci dentro anche i Teletubbies.

Il collegamento diretto con il primo film non è scontato, e chi si ricorda bene una delle scene più impressionanti (nella chiesa), resterà piacevolmente sorpreso dagli sviluppi. Anche se con personaggi diversi, resta vivo quel cinema fatto di outsiders, che caratterizza spesso le opere di Boyle. Si nota la scrittura di Alex Garland nella sua forte componente spirituale ed esistenziale, ma anche in piccoli dettagli simbolici o di caratterizzazione (gli infetti striscianti ricordano un personaggio del suo Men). In questo capitolo ci ritroviamo davanti a una scena particolarmente struggente – con Ralph Fiennes nella parte di un dottore che si è praticamente auto-esiliato – dove parlano di Memento Mori, riflettendo quindi sulla mortalità e la transitorietà della vita

Ralph Fiennes

La storia di Jamie (Aaron Taylor-Johnson), Isla (Jodie Comer) e del giovane Spike (Alfie Williams) si sviluppa su Holy Island, un luogo isolato che diventa metafora di una società che ha scelto di ritirarsi dal mondo per preservare ciò che resta dell’umanità. Quando Isla si ammala gravemente, suo figlio Spike decide di intraprendere un viaggio verso la terraferma per cercare un medico. Qui il film si trasforma quasi in un racconto di formazione, in cui l’infanzia è costretta a confrontarsi con la durezza della realtà, scoprendo che il mondo è andato avanti nonostante la quarantena. Il personaggio del dottor Ian Kelson (Ralph Fiennes), un medico-filosofo che ha costruito una chiesa interamente di ossa umane, rappresenta l’umanità che, nonostante tutto, cerca di mantenere la propria dignità e compassione. La sua presenza nel film solleva diversi interrogativi, ed è una chiave importante che permette non solo ai personaggi ma anche allo spettatore di riflettere sull’esistenza in un mondo che sembra aver perso ogni riferimento.

Cosa rende questo nuovo capitolo così efficace?

Peragonando 28 Anni Dopo ad altri prodotti su zombie e/o infetti (come la poco riuscita serie di The Last of Us), il film di Boyle è caratterizzato da una visione decisamente più cruda e meno idealizzata della sopravvivenza, senza dover enfatizzare la lotta tra il bene e il male. Presenta individui conflittuali che non sono semplici archetipi morali, e le loro azioni sono mosse da motivazioni ambigue. In ogni scena respiriamo quel disperato bisogno di sopravvivenza che ci si aspetta, anzi, si pretende, da una contesto simile. Gli infetti continuano ancora a portare tracce della loro umanità, nonostante siano passati tanti anni dal contagio, e si evince soprattutto in una scena molto significativa che riguarda una donna infetta e un neonato. Nel secondo tempo, il film potrebbe risultare un po’ calcolato nella sua deriva esistenzialista e toccante, ma lo fa sempre con una certa consapevolezza, mantenendo una coerenza narrativa e stilistica. 

Aaron Taylor-Johnson e Alfie Williams

Continua a esserci l’approccio sporco e grezzo (volutamente) di Danny Boyle, che usa il digitale (e i suoi limiti) come strumento espressivo. Girato in gran parte con diverse versioni di iPhone 15 e varie lenti professionali, con l’aiuto di cage e droni per ottenere un’estetica fluida e naturale. Una delle più grandi novità del primo film fu l’uso estremo della camera digitale a basso budget, e non si trattava solo di una scelta economica, ma di un’estetica consapevole: l’immagine sporca, instabile, che trasmetteva un senso di realtà (da documentario) che aumentava l’angoscia e l’urgenza. Boyle e Garland scardinavano l’iconografia classica dello zombie romeriano (lento, morente, simbolico) con infetti veloci e rabbiosi, più simili a una manifestazione virale che a una metafora sovrannaturale.

Gli infetti non sono dei “morti viventi” ma umani privati del controllo, incarnazione pura della furia incontrollata e della fragilità del tessuto sociale. L’archetipo dell’infetto/zombie continua ancora oggi a essere accattivante perché parla comunque di noi, dei nostri tempi, delle nostre paure biologiche, psicologiche, politiche. In tempi di Covid e sorveglianza globale, l’infetto è sicuramente più credibile e simbolicamente potente dello zombie lento e decomposto. La velocità del contagio è la metafora del nostro presente, come il mondo contemporaneo che si muove a ritmi isterici. Il riflesso iperrealista della connessione globale dove bastano pochi secondi per il collasso, e questo rende l’infetto una figura perfettamente sincronizzata con l’accelerazionismo di questo secolo.

Jodie Comer

L’uso di dispositivi mobili per la realizzazione di un film è stato ovviamente già esplorato in passato, ma raramente con la stessa intensità e coerenza stilistica di 28 Anni Dopo. Come ha dichiarato Boyle durante la conferenza, spesso è capitato che in montaggio trovassero solo una piccola sequenza video a fuoco o con i movimenti giusti, ma ne valeva la pena perché si trattava sempre di qualcosa di unico che non si trova quasi in nessun altro film. La fotografia di Anthony Dod Mantle, già collaboratore di Boyle in 28 giorni dopo, sfrutta nuovamente le potenzialità del digitale low-budget per creare immagini molto suggestive, che amplificano quella sensazione di claustrofobia e disperazione. La regia di Boyle è sempre stata peculiare per la sua energia dirompente e la sua voglia di innovare, ed è per questo motivo che funziona così bene la collaborazione con un autore come Garland. Indicativo di questo equilibrio sono le sequenze d’azione, sempre cariche di tensione, che non sono inserite come riempitivi d’intrattenimento, ma visivamente vi è sempre una continua ricerca stilistica. Ottimo anche il lavoro sul montaggio (Jon Harris) che contribuisce a dare una certa dinamicità a un film che non vuole appoggiarsi troppo sulle prove attoriali (il cast se la cava discretamente, ma non è certo uno dei motivi per cui il film sia così interessante). Nel complesso potevano limare qualche minuto ma è un film con un ritmo che alterna momenti di calma apparente a esplosioni di violenza improvvisa, raggiungendo un equilibrio che tiene lo spettatore costantemente coinvolto. 

Nelle interviste, il regista ha dichiarato che la parte 2 di questa nuova trilogia uscirà a gennaio 2026, con la regia di Nia DaCosta e il ritorno di Cillian Murphy. Per la terza parte invece stanno aspettando i finanziamenti e sarà nuovamente diretto da lui. 

28 Anni Dopo non è un sequel qualunque, ma è la dimostrazione che il genere horror è sempre in grado di rielaborare e riproporre qualcosa di contemporaneo. Un film che sa essere sia brutale che filosofico, riflettendo sulle ansie del presente (dalla post‑pandemia ai risentimenti nazionalisti) e rinnovando visivamente il primo film. La coppia ormai consolidata Boyle–Garland trova un perfetto equilibrio, facendo emergere le ossessioni e lo stile di entrambi. 

Classificazione: 3.5 su 5.

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