Benvenuti o bentornati su Horror Italia 24! Oggi approfondiremo la genesi della pellicola di Frankenstein; non una qualsiasi ma precisamente quella del 1931 prodotta dalla Universal e diretta da James Whale. Mi chiederete, ma perché proprio questa pellicola e non altre è così importante per il mondo del fantastico e dell’orrore? Perché fu proprio questo film a creare l’iconografia della creatura di Frankenstein come si è poi tramandata nella storia del cinema.
Se ancora oggi diciamo Frankenstein, oppure mimiamo un corpo rigido che si muove lentamente e in modo ondulatorio con le braccia tese in avanti, a chi non viene in mente quella specifica versione del mostro? A chi non viene in mente un cranio che sembra una scatola, un viso verde pallido e degli elettrodi al collo?
Ebbene, quella creatura era destinata ad entrare nell’Olimpo delle divinità del terrore grazie al suo interprete, quello che sarebbe poi diventato il re dell’orrore: Boris Karloff.

Fatevi avanti, non siate timidi. La creatura ci aspetta!
Indice
1 – La pellicola
2 – Le divergenze dal racconto originario
3 – L’ispirazione per la realizzazione della creatura
4 – Karloff il mostro gentile
5 – Conclusioni
1 – La pellicola
Dopo il grande successo riscosso da Dracula, che nel febbraio del 1931 alla sua uscita nelle sale aveva fatto fruttare alla Universal Pictures più di un milione di dollari nel giro di pochi mesi, Carl Laemmle Jr., figlio venticinquenne di Carl Leammle, proprietario della compagnia cinematografica, decise che i mostri sarebbero stato il primo business di famiglia.

Il padre infatti, per il venticinquesimo compleanno del figlio, gli aveva dato in regalo la gestione della compagnia. Junior non perse tempo per accaparrarsi i diritti cinematografici sulla sceneggiatura teatrale dell’opera di Mary Shelly, edita prima da Peggy Webling per il teatro inglese e poi da John Balderston per Broadway, pagandoli 20.000 dollari ciascuno. Per approfondire la storia della genesi della sceneggiatura teatrale per Broadway, parleremo approfonditamente in un altro articolo.
Secondo alcuni storici del cinema invece fu il regista francese Robert Florey il vero responsabile della realizzazione del film. Convocato dalla Universal per dirigere un altro film sui mostri, Florey avrebbe attinto da fonti ancora più indietro nel tempo rispetto a quelle a cui si faceva comunemente riferimento all’epoca in America, richiamandosi appunto a Mary Shelley. Ai dirigenti della Universal il progetto piacque ma ebbero da ridire sulla sceneggiatura e sulla selezione degli attori, che prevedeva, per il mostro, un riluttante Bela Lugosi. Secondo lo storico del cinema horror David J. Skal, alla sceneggiatura Florey aveva tolto tutto il pathos che la Webling e Balderston gli avevano conferito. Inoltre il regista francese concepì il film in dichiarato stile espressionista, alla maniera della celebre pellicola “Il Gabinetto del Dottor Caligari” (Robert Wiene, 1920). Il mostro sarebbe stato inoltre calcato sul modello de “Der Golem” (Carl Boese e Paul Wegener, 1920) e la cosa non piacque per niente ai produttori.
I dirigenti decisero allora di non ingaggiare più Florey ma di chiedere al colto English man James Whale (Inghilterra 1896 – 1957), il quale si era già distinto in pellicole come “Journey’s End” (1930) e “Waterloo Bridge” (1931), il suo primo film per la Universal. James Whale, che aveva recitato persino in un campo di prigionia tedesco durante la Prima Guerra Mondiale, si fa subito riconoscere per il suo savoir faire e propone alcuni attori con cui aveva già lavorato, Colin Clive per il ruolo di Henry Frankenstein e Mae Clarke per la moglie Elizabeth. Sarà proprio la Clarke a rilasciare un’intervista nella quale svela che Whale, che lei chiama Jimmy, era solito lavorare con attori che già conosceva (Cozzi, 293). Impossibile fare a meno di pensare James Whale come un Tarantino degli anni ’30!

Ma procediamo con gli altri nomi che hanno fatto della pellicola un capolavoro. La sceneggiatura definitiva venne curata da Garrett Fort (1900 – 1945) e da Francis Edward Faragoh (1898 – 1966). Alla fotografia, ottimizzata in bianco e nero, troviamo l’americano Arthur Edeson (1891 – 1970) mentre alla scenografia l’inglese Charles D. Hall (1888 – 1970), il quale creò strutture, ambienti e arredamenti per ben centosei film, fra cui “Il Monello” di Charles Chaplin (1921) ma anche molti horror, fra cui “Il Fantasma dell’Opera” (1925), “Dracula” (1931), “Il Dottor Miracolo” (1932), “L’uomo Invisibile” (1933), “La Moglie di Frankenstein” (1935). Una doverosa menzione va fatta anche all’ingegnere elettrico che realizzò gli sfrigolanti marchingegni del laboratorio, Kenneth Strickfaden. È proprio grazie alla sua opera visionaria che lo stesso set venne più volte riutilizzato per altri film fino agli anni ’70! Vi lascio qui il link ad un articolo di approfondimento sul tema: https://www.moma.org/magazine/articles/28 .
Tuttavia, la vera star del film fu Boris Karloff (1887 – 1969) il quale di lì a poco, proprio grazie al ruolo del mostro, sarebbe diventato il vero, unico e inimitabile “re dell’orrore”. Fu infatti proprio lui, grazie al magnifico trucco di Jack Pierce (Grecia 1889 – Hollywood 1968), a sublimare la figura del mostro ed elevarla fra gli dei del cinema horror.

2 – Le divergenze dal racconto originario
La trasposizione cinematografica del Frankenstein di Mary Shelley che, come detto, fece davvero la storia del cinema, uscì nei theater americani in prima mondiale il 29 ottobre del 1931. Tuttavia la pellicola presentava diverse incongruenze rispetto allo script originale.
Per prima cosa possiamo sicuramente citare la differenza nei nomi dello scienziato tedesco, Victor nel romanzo, Henry nel film, nome più familiare al pubblico americano. Possiamo poi citare la presenza di Fritz, l’assistente del dottore, assente nel racconto originale ma presente già nei successivi adattamenti per il teatro. La concezione della creatura viene descritta pochissimo dalla scrittrice inglese se non
per il suo volto, i suoi occhi gialli e acquosi e per la sua statura; tutto il resto lo fecero Whale e Pierce.
Inoltre, l’enorme macchinario elettrico utilizzato dal dottor Frankenstein non viene menzionato e non viene menzionata neanche l’energia elettrica come fonte della vita nel testo di Mary Shelley ma si accenna solamente ad alcuni “strumenti atti ad infondere la scintilla della vita”, lasciando molto spazio all’immaginazione. Forse fu proprio quella parola, scintilla, a suggestionare gli sceneggiatori.
Altri componenti aggiunti alla trasposizione cinematografica rispetto alla trama principale sono, fra le altre, la scena della bambina che viene gettata nel lago, la scena finale col mulino in fiamme e Fritz che viene incaricato di recuperare un cervello umano di un uomo virtuoso dall’università, completamente assenti nel testo di Mrs. Shelley. A tale proposito, se ci fosse ancora la possibilità di intervistare James Whale, e purtroppo non c’è, mi verrebbe proprio da chiedere se, allorché Fritz non avesse fatto cadere, rendendolo inutilizzabile, il primo cervello scelto per l’esperimento, la creatura di Frankenstein sarebbe stata abominevole alla stessa maniera…

3 – L’ispirazione per la realizzazione della creatura
Veniamo ora al nocciolo di questo articolo: a cosa si ispirarono gli artisti per la realizzazione di quel mostro che sarebbe poi passato alla storia del cinema e della pop culture?
Le fonti di ispirazione furono diverse. Una di queste è l’estetica imperante in quel periodo nel paradigma artistico del cubismo, dell’espressionismo e degli stilemi del Bauhaus che, insieme, crearono l’idea di una creatura dalle linee sghembe. L’idea originaria di Florey inoltre non venne del tutto abbandonata in quanto sia Whale sia Pierce studiarono bene la performance e il trucco di Conrad Veidt in Caligari. Il mostro di Frankenstein infatti potrebbe essere sovrapposto al Cesare interpretato da Veidt: entrambi sono dei sonnambuli le cui volontà sono trattenute da altri. Sulle palpebre di Karloff vennero infatti apposte delle protesi che non permettevano all’attore di aprire gli occhi completamente, esasperando questo senso di costante dormiveglia.

Il celebre truccatore ed effettista Rick Backer, nel documentario Frankenstein Files, edito dalla Universal per il centenario della compagnia ed incluso negli speciali dell’edizione Blue Ray Universal Monsters 2012, ci svela che all’epoca i materiali usati per gli effetti speciali erano ben diversi da quelli che si usano oggi. Per realizzare quello che l’ufficio design aveva pensato vennero utilizzati cotone, mastice e collodio (un tipo di plastica). Venivano utilizzati a strati per fare massa e poi modellarla fino alla resa finale. Purtroppo per l’attore e il truccatore, tutto il procedimento prendeva circa tre ore per montare e tre ore per smontare. Immaginatevi quindi la temperanza di tutto lo staff per allestire quel mostro!
La fronte sporgente della creatura suggeriva una regressione nella scala evolutiva, come a formare uno scatolone cranico dove poteva essere riposto un cervello altro a quel corpo. Le articolazioni invece prendevano ispirazione da una configurazione di uomo che si era man mano affermata negli anni dopo la guerra: l’uomo macchina. Secondo questa vera e propria cultura post-bellica infatti la vita e la morte potevano essere benissimo il risultato di una catena di montaggio e l’uomo un congegno meccanico al servizio di volontà altrui. L’idea di stampo più meccanico, ricorda David J. Skal sempre nello stesso documentario, fu quella del bullone d’acciaio che trapassa il collo della creatura, proposta dall’illustratore ungherese Karoly Grosz, allora direttore artistico della Universal. Queste erano tutte aggiunte al testo originale di Mrs. Shelley. Se è vero che l’epoca della scrittrice inglese era stata devastata dalle guerre napoleoniche, gli orrori della Prima Guerra Mondiale dovevano ancora arrivare.

Ancora Skal, circa la concezione del mostro, scrive che “grottesco manichino” ben definisce il mostro di Frankenstein, amalgama di corpi convenzionali fatti a pezzi e riassemblati seguendo i nuovi principi logico angolari ed elettromeccanici. La testa squadrata – un motivo comune nella grafica pubblicitaria del periodo – evoca potentemente il tormento di un’antica coscienza costretta a occupare un paradigma nuovo, un cervello tondeggiante legato malamente in un cranio a configurazione meccanica” (Skal, 123).
Comunque sia andata, il risultato finale doveva essere davvero terrificante per la sensibilità dell’epoca. Nel 1950 al New York Herald Tribune, lo stesso Karloff dichiarò che, mentre stava provando la camminata una volta terminato il costume, svoltò un corridoio degli studios e si trovò faccia a faccia con un attrezzista. “Era il primo a vedere il mostro: lo osservai per studiarne la reazione, che fu immediata. Diventò bianco, deglutì e sparì dalla vista lungo il corridoio. Non l’ho più visto. Pover’uomo, avrei tanto voluto ringraziarlo: fu lo spettatore che per primo mi fece sentire un mostro” (Skal, 124).

Lo storico del cinema Gregory W. Mank in Frankenstein Files ci racconta che, in una sua intervista all’attrice Mae Clarke, questa gli raccontò che, per la suggestione, non se la sentiva di girare la scena in cui il mostro entra nella sua stanza e cerca di ucciderla. Boris Karloff allora propose di utilizzare uno trucchetto: egli avrebbe mosso il dito mignolo della mano non ripresa dalla cinepresa per farsi riconoscere come se stesso e non come il mostro. Senza quello stratagemma, la Clarke non avrebbe mai potuto girare la scena!
4 – Karloff, il mostro gentile
Figlio di una famiglia inglese benestante, Boris Karloff, nome d’arte dell’attore trapiantato ad Hollywood William Henry Pratt, tutto si sarebbe aspettato tranne di diventare il re dell’orrore. Prima del successo di Frankenstein, aveva svolto ruoli secondari, come quello nel film muto “His Majesty the American” (1919) oppure ruoli di criminali negli allora diffusi gangster movie, come nel film “The Criminal Code” (1930).

Il giorno che James Whale lo scritturò per il ruolo del mostro, la sua carriera cambiò radicalmente. Il successo di Frankenstein, dovuto in gran parte all’interpretazione che ne diede Karloff, cambiò tutto e rappresentò per l’attore il trampolino di lancio perfetto per la carriera che tanto desiderava. Ciò che viene migliorato del film, scrive lo studioso David Punter nel suo libro “Storia della Letteratura del Terrore”, è la presenza stessa del mostro, grazie alla partecipazione di Boris Karloff:
“la sua recitazione è tenuta precisamente sul filo del mostruoso, senza mai degenerare nella crassa volgarità con cui egli viene talvolta parodiato. [Sotto il pesante trucco] c’è una faccia capace di una gamma sensibile e commovente di espressioni. La figura stessa potrà sembrare inizialmente meccanica simile a un robot, ma il senso del movimento di Karloff la dota di una misteriosa fluidità che ci fa sempre rimanere con il dubbio su ciò che è e ciò che non è umano” (Punter, 309).

Successivamente, l’attore avrebbe interpretato moltissime altre pellicole dell’orrore, queste fra le più famose: “The Mummy”, “The Mask of Fu Manchu” e “The Old Dark House” (1932); “The Black Cat” (1934), “The Bride of Frankenstein” (1935), “The Son of Frankenstein” (1939), “The Body Snatcher” (1945), “Grip of the Strangler” e “Corridors of Blood” (1958); “The Raven” (1963) e “I Tre volti della Paura” (1963) diretto dal maestro dell’horror italiano Mario Bava.
Come si legge sul dizionario universale del cinema, Karloff seppe ben variegate le sue interpretazioni, sia per il teatro che per il cinema, pur restando confinato al ruolo del villain. Continuò a lavorare sino a pochi mesi dalla morte, con serietà professionale e soprattutto con quell’amore per il mestiere dell’attore che lui stesso rivendicava (Cozzi, 299).

Nel documentario Frankenstein Files certo non poteva non essere intervistata Sara Karloff, figlia dell’attore. È lei che ci da testimonianza delle sofferenze del padre nel girare il film che lo rese famoso. In seguito alle riprese infatti Sara racconta davanti alla telecamera che il padre fu costretto a subire tre interventi chirurgici alla colonna vertebrale perché il peso del trucco e del costume era davvero eccessivo. La figlia si riferisce soprattutto alla scena in cui la creatura trasposta di peso Henry Frankenstein su per le scale interne del mulino, girata più volte. Inoltre la figlia ricorda che le riprese iniziarono a metà agosto. Immaginiamo che all’epoca l’aria condizionata magari poteva ancora non essere stata installata sui set e che il costume del mostro comprendeva, oltre il trucco, un costume e degli stivali pesanti. Una prova non da poco! Ah, a proposito, Boris preferiva dire “creatura”, e non “mostro”.
Lo storico del cinema Bob Madison invece pone l’accento sulla doppia percezione del pubblico nei confronti della creatura. Seppur raccapricciante, la creatura faceva stringere il cuore alle persone, soprattutto ai bambini. Infatti esso, proprio come un bambino, si trova in un mondo nuovo, che non consce e che non capisce, con regole che ignora e che sperimenta essere pericoloso a proprie spese. Egli
è spaesato e terrorizzato, proprio come un bimbo lasciato solo nel mondo. Furono i bambini infatti a immedesimarsi di più con la creatura.

5 – Conclusioni
Tutto questo contribuì al successo della pellicola. Il contesto storico post bellico, la grande depressione e i recenti progressi della scienza gettarono il background di riferimento. James Whale fece il resto, creando sequenze epiche e donando alla storia di Frankenstein il suo tocco personale e artistico.

Possiamo dire anche che l’appartenenza etnica di Henry Frankenstein giocò in favore del successo della pellicola. Per Mary Shelley la nazionalità del personaggio era legata ai temi del genere gotico stesso, che prediligeva personaggi italiani oppure tedeschi; mai inglesi. Questo perché il gotico si inseriva nella letteratura dell’epoca come cesura netta con il genere naturalista classico, in protesta e in rivoluzione con esso (Punter, 13). Sembra infatti che si sia ispirata all’omonima famiglia tedesca realmente esistita nel XVI secolo in Germania, dove ancora oggi esiste un castello. Se volete approfondire, vi lascio il link di uno sfiziosissimo articolo sull’argomento (https://www.emotionrit.it/2024/09/germania-burg-frankenstein-mary-shelley/). Ai fini della storia, l’appartenenza etnica di Victor Frankenstein richiamava un personaggio letterario tormentato.
Anche nell’America degli anni ‘30 la figura di Frankenstein non era totalmente estranea, per motivi più lugubri. Infatti, quando i reduci della Prima Guerra Mondiale che avevano combattuto in Europa contro i tedeschi trovarono nelle sale cinematografiche delle loro città un personaggio come quello del Dottor Frankesntein, la nazionalità dello scienziato lo fece diventare immediatamente familiare ma sempre degno di biasimo e simbolo di depravazione.

Henry Frankenstein e la sua creatura sono gli archetipi dello scienziato pazzo e spregiudicato che crea un abominio, una figura fondamentale nell’epica del cinema horror. Questo binomio ha caratterizzato moltissime altre pellicole. Pensiamo ad esempio a “L’Isola del dottor Moreau” (1932), tratto dal romanzo di H.G. Well, dove il folle vivisezionista Charles Laughton voleva accelerare il processo evolutivo in
laboratorio per creare mostruose razze semiumane. Pensiamo anche a “La mosca” (1958) diretto dal celebre Kurt Neumann, trasposizione cinematografica del racconto noir-horror di George Langelaan, dove il dottor Andrè Delambre si rende responsabile della creazione di un altro abominio, metà uomo e metà insetto in seguito al suo esperimento di teletrasporto finito male. Oppure pensiamo al più recente “From Beyond” (1986), diretto da Stuart Gordon ed ispirato al racconto del sommo H.P. Lovecraft , dove ancora una volta uno scienziato completamente pazzo, il dottor Edward Pretorius, attraverso la sovra stimolazione della ghiandola pineale, trova il modo di entrare in contatto con una dimensione altra, nascosta all’uomo perchè popolata di creature raccapriccianti e pericolose per la vita e la sanità mentale.
Egli ne verrà completamente risucchiato e cercherà di trascinare con se anche i protagonisti della storia.

L’eco del Frankenstein di Whale non si fa sentire solamente sulle trame di altri film horror ma anche sui loro titoli. Possiamo citare, ad esempio, il caso di Re-Animator (1985), sempre diretto da Gordon, il cui seguito si intitola “The Bride of Re-animator” (1990); e il caso di “Child Play” (La Bambola Assassina, 1988), il cui quarto sequel viene intitolato “Bride of Chucky” (1998). Entrambi infatti sono omaggi al primo sequel di Frankenstein, “The Bride of Frankenstein” (1935) sempre diretto da James Whale. Fun fact: il nome dello scienziato Pretorius in “From Beyond” è un omaggio dichiarato alla pellicola sempre di Casa Universal “La
moglie di Frankenstein” (1933), dove il mentore di Victor Frankenstein si chiama Septimus Pretorius!
È chiara quindi la prorompente influenza che la storia del Frankenstein abbia avuto sulla storia del cinema horror e di quanto sia poi entrata a far parte della pop culture. Ancora oggi statue, action figure, magliette e poster celebrano la grandezza del film e del suo leggendario interprete.
a cura di Edvard Walden
Bibliografia
AA. VV. , Guida al Cinema Horror, dalle Origini del Genere agli Anni Settanta, Odoya, Bologna, 2021
Dario Argento, Mostri & C., Enciclopedia Illustrata del Cinema Horror e di Fantascienza, Anthropos, Roma 1982
David J. Skal, The Monster Show, Storia e Cultura del Cinema Horror, Cue Press, Imola 2020
David Punter, Storia della Letteratura del Terrore, il Gotico dal 700 ad Oggi, Editori Riuniti, Roma 2006
Luigi Cozzi, Il Cinema Horror, Storia e Critica, Profondo Rosso, Roma 2018
Mary Shelley, Frankenstein o il Prometeo Moderno, Rizzoli, Milano 2019
Leggi anche: Dracula – Come nacque il mito di Bela Lugosi