Romania. 2004 per l’intreccio scenico, due anni in aggiunta per il pubblico fruitore italiano che con ritardo accede alla visione in sala dell’opera di Xavier Gens ultimatata nel 2017.

La pellicola spesso dimentica la paternità del regista francese e si lascia banalmente viziare dalla sceneggiatura eccessivamente commerciale dei fratelli Chad e Carey W. Hayes, creatori narrativi dei due capitoli dell’universo cinematografico di The Conjuring.

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Il film si presenta come sequel spirituale della opera romena După dealuri (Oltre le colline) premiata al Festival di Cannes del 2012 per la struggente e pasoliniana descrizione del dramma umano che condusse Alina alla morte. La sezione di casting, costumi e scenografia diretti da X. Gens rende splendidamente e rispettosamente omaggio alla pellicola romena di cui continua la narrazione utilizzando il pretesto narrativo dell’inchiesta seguendo le orme di In Cold Blood di Truman Capote: una giovane giornalista si reca sul luogo del dramma per comprendere le ragioni di una morte scritturando di fatto in finzione scenica la redattrice della BBC Tatiana Niculescu Bran che nel 2006 documentò l’evento di cronaca nell’opera Confessione a Tanacu; soltanto i due sceneggiatori risultano lontani da questa poeticità perché consumano la pellicola banalizzando il tema dell’indagine giornalistica con una ripetizione scenica degli eventi e un’attenzione demoniaca rivolta alla tecnologia come supporto di inchiesta apprezzati troppo recentemente in Sinister e rendendo l’intera trama un “road movie to the exorcism” in cui anche la luce dei lampioni notturni perde l’iconico fascino da locandina presente in L’esorcista del 1973.

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Piacevole risulta – invece – il connubio artistico tra X. Gens e il direttore al montaggio Adam Trotman. Le scene sembrano leggermente suggerire un montaggio antropologico in cui lo spettatore può comprendere e interpretare la scena intuendo quale punto di vista sia stato scelto dal regista, la visione religiosa della fede o la visione ingannevole del demone Agares o la riflessione medico-scientifica e razionale: il campo lungo predilige la prima, la seconda è prediletta dal primo piano e dalla shaky cam (piacevole è l’abbozzo di piano sequenza che apre la pellicola a modello di Evil Dead), la terza si regge sulla scelta della mezza figura.

Il montaggio risulta tecnicamente riflessivo anche per la scelta fluida del cutting on action nel passaggio temporale tra la linea narrativa del presente e quella dei flashback riguardanti i personaggi della vicenda narrata; e per la scelta in montaggio sonoro di sovrapporre il silenzio di Dio vissuto dalla protagonista al silenzio della scena. A mio avviso la proposta più riuscita risulta il dialogo tra Nicole e Anton dopo la confessione di mancanza di fede della donna nel silenzio più assoluto di un paese che oltre il vetro della finestra alle spalle dei due attori esplode nei festeggiamenti della celebrazione di un ancestrale Halloween romeno.

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Il regista di Frontière(s) cerca di gestire i fastidiosi e numerosi jumpscare riuscendo talvolta a donare un’atmosfera scenografia da illusionista ai momenti di tensione legati a tende e luci improvvisamente spente; purtroppo X. Gens si libera unicamente in due occasioni dalla superficialità della sceneggiatura offrendo una riflessione sessuale visiva del tema della possessione demoniaca (laddove in Evil Dead è presente una possessione arborea tramite rami, in Crucifixion il medesimo tema si sposta verso un’allegorica zoofilia) e accennando a una riflessione politica sul comunismo in cui l’eco funebre della campana legata alla vita di un prete sembra ricordare un frammento di Meditazione XVII di John Donne: «E allora, non chiedere mai per chi suoni la campana. Essa suona per te».

Crucifixion suona la sua campana: essa produce un suono sordo ma non privo di una eco di riflessione.