Il 20 gennaio del 1946 a Missoula, nel Montana, nasceva il più grande artista di questo secolo: David Keith Lynch. Il 15 gennaio del 2024 però, nel mondo, resta un grande buco: David Lynch muore. Ma noi, come avrebbe voluto lui, non guarderemo il buco enorme che ci lascia: guarderemo la ciambella. E parte di questa ciambella è uno dei suoi film più estremi e potenti, più divisivi e più premiati: Cuore selvaggio, del 1990.

Trama
Sailor Ripley (Nicolas Cage) e Lula Pace (Laura Dern) sono giovani e innamorati ma la loro relazione è mal vista da Marietta Fortune (una immensa Diane Ladd), madre di lei, che in passato ha tentato persino di uccidere Sailor. Per questo i due amanti fuggono in un lungo viaggio tra le strade e i sobborghi degli Stati Uniti, inseguiti dagli uomini che Marietta ha sguinzagliato loro dietro: l’investigatore privato Johnnie Farragut (Harry Dean Stanton) e il gangster Marcelles Santos (J. E. Freeman) insieme ai suoi sicari.

Le idee arrivano nei modi più impensati
Anno 1990: la serialità televisiva era stata sconvolta dalla messa in onda dell’epocale mistery Twin Peaks, firmato da Mark Frost e dal due volte candidato al premio Oscar David Lynch. Una di quelle opere seminali che cambia le carte in tavola e assurge al rango di mito. Lynch però, dopo aver ideato, scritto, curato e in parte diretto la prima stagione, per divergenze con la produzione se n’era allontanato. Le sue antenne si erano rivolte ad altri progetti tra cui il suo quinto lungometraggio come regista: il controverso road movie Cuore selvaggio, tratto dal romanzo omonimo di Barry Gifford.
Presentato alla 43° edizione del Festival di Cannes, Cuore Selvaggio vinse la Palma d’Oro come Miglior Film per giudizio insindacabile del presidente di giuria Bernardo Bertolucci, ma venne accolto freddamente da parte del pubblico e della critica: niente di strano, era un film di Lynch, un regista che non aveva mai cercato di cavalcare le mode e non si era mai dimostrato accondiscendente nei confronti del pubblico.

Il suo esordio cinematografico Eraserhead (1977) era sì il film preferito da Stanley Kubrick, ma era stato anche un weird movie apprezzato principalmente nelle proiezioni di mezzanotte e per lo più sconosciuto al grande pubblico. E se con il successivo The Elephant Man (1980) Lynch si era fatto notare e incensare dal sistema hollywoodiano per poi farsi fare a pezzi nel 1984 dal flop commerciale di Dune, con Velluto blu del 1986 aveva fatto capire al mondo cosa volesse dire girare un film alla David Lynch.
La gente conosceva e amava Twin Peaks. David Lynch, in effetti, era diventato esclusivamente Twin Peaks. Tutti pensavano che Cuore selvaggio sarebbe stato un film alla Twin Peaks, ma ovviamente non fu così. Anzi. Se con Velluto Blu si erano toccati temi e atmosfere estreme, con Cuore selvaggio il regista scelse di spingere ancora di più sull’acceleratore. Il mondo di Sailor e Lula è sull’orlo dell’abisso e il nostro aveva già odorato gli eventi e i disordini che da lì a poco avrebbero sconvolto gli U.S.A..

“Il film è mio e ci metto tutti i conigli che voglio”
Wild at Heart è un film a metà strada tra il noir e il road movie, condito da elementi onirici e da un gusto pop e quasi fumettistico, ai limiti del grottesco, per la violenza. Ecco, uno dei problemi della critica dell’epoca fu proprio questo: non riuscire a cogliere il grottesco e l’ironia, concentrandosi sulla violenza e sugli aspetti più torbidi di un film complesso in cui si compie la sintesi degli opposti. Partendo là dove era finito Velluto Blu, Lynch ci mostra un mondo non più velato dall’apparenza, dove l’insensatezza e la violenza esplodono coinvolgendo cose e persone, innocenti e colpevoli, vittime e carnefici, ma senza dimenticarne mai la bellezza, senza metterla mai davvero da parte, senza rinunciare mai all’ironia di cui quello stesso mondo è permeato.
Fu Monty Montgomery (il cowboy di Mulholland Drive) a consigliare a David la lettura del romanzo di Barry Gifford. Inizialmente era lo stesso Montgomery che voleva dirigere la pellicola, ma la storia piacque cosi tanto al nostro che subito se ne appropriò, relegando l’amico Monty al ruolo di produttore.

Quella storia d’amore così libera, sincera e alla pari, vissuta in un mondo selvaggio e immerso nel caos, rapì la mente del regista, turbò quelle acque profonde da cui “pescava” le idee e da cui emersero importanti novità rispetto al libro. È quell’amore il cuore della storia, la speranza attorno a cui tutto si muove e per cui tutto diventa sopportabile, la spinta a un viaggio che ci immerge oltre il velo dell’apparenza, lacerandolo definitivamente.
Cuore selvaggio è un ritratto estremamente figurato dell’America tanto amata dal regista. Non a caso i personaggi di Sailor e Lula coincidono con alcune tra le maggiori icone della “mitologia” U.S.A.: Elvis Presley e Marilyn Monroe, il duro dal cuore d’oro e la lolita. L’America di David Lynch non è una nazione di patrioti e famiglie felici, quello che viene portato a galla è il peccato originale di una nazione, la cui innocenza è perduta ormai da tempo. Ma se le maschere che ci vengono mostrate sono tutte ormai sporche di polvere e sangue, resta ancora il volo del pettirosso, la possibilità che il Mago di Oz possa realizzare il desiderio di chi giunge al suo cospetto. Resta lo sguardo salvifico della strega buona, il tocco angelico della speranza che si concretizza nel perdono che non cancella il peccato ma che permette di conviverci e di andare avanti.

“Questa è una giacca di pelle di serpente e simboleggia la mia individualità e fiducia nella libertà personale”
Tutti i personaggi del film, inclusi i due protagonisti, raggiungono punte caricaturali ed estreme, addirittura grottesche. E così Sailor/Elvis balla con le movenze di un karateka in simbiosi con la sua giacca di pelle di serpente e Lula/Marilyn, dai biondi capelli cotonati e dai vestiti succinti, fa la vamp masticando l’immancabile chewing gum di fronte al vecchio gestore nero di una pompa di benzina. Sono questi i barlumi di innocenza che ancora rimangono in loro e che solo il loro rapporto è in grado di portare in superficie. Quel che resta è morte e desolazione, che si tratti della straziante fine di una giovane donna a causa di un incidente stradale o del polveroso e squallido motel in cui girano un film porno.

Il loro rapporto genera un fuoco quasi purificatore che divampa nei momenti di intesa sessuale, una sessualità libera e catartica che contrasta con quella perversa e annichilente di Juana Durango (una dei sicari di Marcelles Santos, interpretata da Grace Zabriskie) o del killer dalla dentatura marcia Bobby Perù (“come la nazione”) interpretato da un incredibile Willem Dafoe. Il loro è fuoco distruttore che annienta, corrompe e divampa come follia in una realtà ormai fuori controllo, che condanna alla perdizione.
La forza di David Lynch stava sì nel saper leggere il mondo e nel saperlo sintetizzare, ma anche nel dare la possibilità ad ogni spettatore di interpretarlo in maniera personale, intima, forse addirittura privata. Gli estremi delle sue rappresentazioni aprono a un ventaglio inesauribile di possibilità che si concretizzavano proprio quando il film è ormai finito e lasciato libero di essere.

I piccioni diffondono malattie e creano disordine
Un road movie, dicevamo. Situazione strana per il cinema lynchiano fino a quel momento e che non poche difficoltà creò durante la realizzazione. Di altro tipo di strade parlerà il capolavoro Lost highway e solo nove anni più tardi Lynch tornerà sul genere con il film Una storia vera, ma anche lì siamo di fronte un cinema su strada atipico, questa volta lento e riflessivo. Qui invece il ritmo forsennato – il cui incedere è garantito dal superbo montaggio di Duwayne Dunham – si sposa con l’estetica pulp di un Tarantino ante litteram che sviscera una violenza forse addirittura inedita (e una scena fu persino tagliata poiché nella proiezione di prova aveva fatto fuggire gran parte degli spettatori in sala). Ma nel viaggio sulle strade bruciate dal sole (incorniciate dalla fotografia di Fredrick Elmes) alla ricerca di musica per sfuggire alle incessanti notizie di cronaca nera sputate in faccia a Lula dalla radio o nell’oscurità di un futuro passato accompagnati dall’ombra della strega cattiva, si realizza il destino dei nostri protagonisti tra i continui richiami al tanto amato Mago di Oz.

Un viaggio di formazione e redenzione ostacolato da demoni rabbiosi, nel cuore selvaggio e del tutto incomprensibile di una nazione alla deriva, tra personaggi improbabili come quello interpretato da Fraddie Jones in una comparsata assolutamente surreale o storie ai confini della realtà come quella che coinvolge il paranoico cugino Dell e il suo amore per gli scarafaggi. Lynch era un genio e il suo cinema è universale, al di là della sua indubbia capacità di perturbare o influenzare lo spettatore, al di là della potenza formale e dell’ineccepibile tecnica. Cuore selvaggio, come tutta la filmografia di questo Maestro indiscusso, è arte allo stato puro, ancora una volta sintesi ma questa volta di diverse discipline, dalla mimesis visiva alla rappresentazione narrativa passando per quella sonora e della musica, elemento imprescindibile ancora una volta curato dal compagno di una vita Angelo Badalamenti.
Non credevo sarebbe mai arrivato questo momento, non credevo avrei mai dovuto dire “David Lynch è morto”. Farlo, doverlo fare, fa dannatamente male. Non eravamo pronti, forse non lo saremo mai. Ma non ci resta altro che raccogliere l’eredità di chi ha cambiato, aggiornato e determinato un intero immaginario. E continuare ad immergerci nei sogni e negl’incubi che ha rappresentato, facendoli nostri fino a che ne avremo la forza.
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