E’ tornato al cinema dopo venticinque anni Dancer in the dark, l’acclamato (anti)musical dell’enfant terrible del cinema: Lars von Trier. Grazie al lavoro di restauro messo in atto da Movies Inspired, torniamo a seguire le vicende della povera Selma (Björk) e del suo american dream.

Trama

Stato di Washington, 1964, Selma (Björk) è un’immigrata cecoslovacca che cerca di sopravvivere, e mantenere il figlio pre-adolescente Gene (Vladica Kostic), lavorando come operaia in una fabbrica di stampaggio. Purtroppo, una malattia degenerativa la sta rendendo cieca, e l’unico modo che ha per evadere dalla sua triste situazione è rifugiarsi all’interno dei musical, perchè all’interno dei musical niente di terribile può accadere.

Selma – Dancer In The Dark

Recensione

Dancer in the dark è un (anti)musical scritto, diretto e sceneggiato da uno dei registi più controversi del panorama cinematografico: Lars von Trier. Vincitore della Palma d’oro e del premio per la miglior attrice a Björk al Festival di Cannes del 2000, è un film che nonostante sia stato ricevuto positivamente, è comunque riuscito a generare qualche critica. Caratterizzato da una regia fortemente influenzata dal Dogma 95, e da un sotto testo critico nei confronti della società statunitense, racconta il melodramma di Selma, cercando di strappare il cuore ancora pulsante a chiunque si appresti alla visione.

Vicini ma distanti dal Dogma95

Ogni volta che ci si addentra a parlare di un’opera del regista danese è impossibile non far riferimento al suo storico manifesto, redatto insieme a Thomas Vinterberg: il Dogma95. Un elenco di regole di regia stringenti, che prevedevano la ricerca del puro realismo all’interno della cinematografia. Eppure è innegabile come, solo pochi anni dopo l’uscita dello stesso, Lars von Trier se ne sia gradualmente allontanato, arrivando poi a creare opere completamente distanti dalle sue convinzioni originarie (vedi The house that Jack builtLa casa di Jack). Ciò è altrettanto vero nel caso di Dancer in the dark. La regia è caratterizzata da due approcci antitetici, gestiti in modo da effettuare un taglio netto tra la realtà di Selma e la realtà musicale, che lei crea per sopravvivere alla quotidianità. Nel primo caso, infatti, vi è un utilizzo massiccio della camera a mano (stilema tipico del Dogma), mentre nel secondo il regista ha optato per l’utilizzo di cento camere fisse[1]. Questa scelta stilistica, decisamente lontana dallo stile iniziale di von Trier, è dovuto alla volontà di lasciare gli attori liberi di muoversi all’interno delle scene danzanti, cercando di immortalare ogni dettaglio e ogni angolatura della coreografia, per poi rimontarli in un secondo momento come desiderato[1]. In senso completamente contrario, le scene con la camera a mano sono girate in modo da lasciare la minor possibilità di movimento possibile agli/alle attori/attrici. I movimenti e i dialoghi sono seguiti in modo ravvicinando, effettuando tagli strettissimi sui volti, soprattutto della protagonista, e sui suoi occhi (fulcro centrale dell’intera vicenda). La realtà soffocante di Selma si alterna alla libertà dei momenti di danza, creando una sinergia tra significante e significato.

Taglio sul volto di Selma – Dancer in the dark

Il ruolo del musical nella stesura di Dancer in the dark

In un’intervista rilasciata dallo stesso Lars von Trier[2], il rapporto del regista con i musical ha avuto un ruolo centrale all’interno di Dancer in the dark. Egli, infatti, dichiara di esser stato affascinato fin da bambino dai musical di Fred Astaire, ma che li trovava estremamente distanti dall’opera teatrale. Nei musical, soprattutto quelli degli anni ’50 le storie raccontate sono caratterizzate dalla gaiezza e dalla sostanziale certezza di un lieto fine.

Non so se il musical faccia effettivamente parte dei melodrammi, certamente appartiene alla famiglia dei melodrammi, ma non li ho mai percepiti come pericolosi. Almeno quelli che vedevo da bambino.

– Intervista a Lars Von Trier su Dancer in the dark

Nella scrittura di Dancer in the dark, il regista ha cercato di ribaltare questo punto di vista, riportando il melodramma all’interno del musical. La storia di Selma è una storia tragica, purtroppo drammaticamente reale. Questo realismo, che viene (parzialmente) perso nel distaccarsi dal Dogma, viene ripreso e consolidato nella struttura delle canzoni. In genere, nei musical tradizionali, le canzoni si intrecciano alla trama facendola progredire. Di fatto sono parte integrante del copione, dialoghi e/o monologhi che non trascendono dall’avanzamento della storyline. Nel caso di Dancer in the dark, le musiche sono un intermezzo strettamente appartenente alla mente di Selma tant’è vero che, al termine del momento danzante, la storia riparte esattamente da dove era stata interrotta[3]. Un esempio di ciò è la prima sequenza danzante, che avviene a circa 40 minuti dall’inizio del film. Selma decide di fare un doppio turno (nello specifico di fare la notte dopo aver già lavorato durante il giorno – NdR) per guadagnare qualche soldo in più. La scelta è evidentemente scellerata, pur nella sua necessarietà, tanto da spingere l’amica Kathy (Catherine Deneuve) a raggiungere la protagonista per affiancarla. Il rumore dei macchinari della fabbrica, genera nella mente di Selma, un ritmo armonico tale da distrarla dal lavoro, dando il via alla prima scena musicale della pellicola. La sequenza viene interrotta bruscamente quando Selma viene richiamata all’ordine. La sua distrazione (ossia l’essersi immaginata all’interno di un musical), le ha fatto quasi rompere uno dei macchinari della fabbrica[3].

Metacinematograficità e citazionismo

In Dancer in the dark il musical non è stato solo fonte di ispirazione iniziale, ma l’intera storia del musical permea nel corso di tutta la pellicola, già a partire dal titolo che rimanda alla memoria Dancing in the dark, celebre danza di Fred Astaire e Cyd Charisse.

Il figlio di Selma si chiama Gene, un riferimento a Gene Kelly, figura iconica dei musical hollywoodiani degli anni ’50. Così, anche il (finto) padre della protagonista è un evidente citazione: Oldřich Nový, attore, regista compositore e drammaturgo ceco, noto per la sua partecipazione a diversi musical. Nový non è presente all’interno della pellicola, dove viene interpretato da Joel Grey. Vediamo Selma prendere parte ad un adattamento amatoriale di Tutti insieme appassionatamente, in cui interpreta Maria. Il riferimento a questa opera avviene anche in una scena finale, nel momento in cui la protagonista cerca di evadere dalla sua realtà cantando My favourite things (sempre tratto dallo stesso musical).

When the dog bites
When the bee stings
When I’m feeling sad
I simply remember my favorite things
And then I don’t feel so bad

– My favourite things (testo)

Se questo è, tuttavia, un citazionismo più manifesto, una sua versione più celata è presente in una specifica scena del finale (e per tale motivo sarà inserita nel prossimo paragrafo contente spoiler).

ALLERTA SPOILER

In una delle scene con Bill (David Morse), Selma confessa di amare i musical e soprattutto di adorare a tal punto la sensazione che essi le innescano, da non desiderarne la fine. Per tale motivo, ogni volta che si recava in un cinema in cecoslovacchia, decideva di uscire dalla sala alla penultima canzone, in modo da avere l’illusione che il film non fosse mai veramente finito.

[riferendosi all’ultima canzone del film] perché sai già quando diventa davvero grande, e la telecamera esce, tipo, dal tetto, […] sai già che finirà.

– Selma rivolgendosi a Bill

Lars von Trier non lascia mai nulla al caso, e anche questa frase non è da meno. Infatti, nella scena in cui Selma si attinge a dirigersi verso la forca, lei canta 107 Steps, ossia 107 passi, quelli che dividono la sua cella dal patibolo. La canzone viene interrotta al numero 106, troncando l’ultimo numero della sequenza sul rumore di una porta metallica. Se questo è il preludio alla fine del melodramma messo in scena dal regista, l’ultima sequenza è creata appositamente per darci il colpo di grazia, il metaforico schiaffo in faccia che ci riporta dal musical alla realtà. Nella scena finale, Selma canta The next to last song in cui si sente ripetere:

This isn’t the last song
There is no violin
The choir is quiet
And no one takes a spin
This is the next to last song

Questa non è l’ultima canzone, non c’è il violino, il coro è quieto e nessuno fa un giro (di danza). Questa è la penultima canzone. La protagonista si rivolge, in un ultimo disperato addio, all’amato figlio Gene e, contemporaneamente, la macchina da presa attraversa letteralmente il tetto, ripercorrendo al contrario l’asse della discesa di Selma[3]. La canzone viene interrotta e vediamo le strofe finali proiettate sullo schermo, mentre la guardia nasconde il corpo della condannata dietro un telo, mimando la chiusura di un sipario. Non basta cantare, la musica non ha potere sulla triste e cruda realtà che ha una canzone finale, quella che Selma trova sul patibolo. Lo spettacolo doveva andare avanti e l’ha fatto, ma lasciandoci tutti/e con il cuore spezzato.

La (non troppo) velata critica al sistema americano

ALLERTA SPOILER

In modo soft e piuttosto velato per i suoi canoni, Lars von Trier inserisce all’interno del suo melodramma una critica al sistema americano e al suo modo di vendersi come il Paese della libertà e dei sogni. Il regista sottolinea, infatti, l’ossessione statunitense verso il comunismo, l’ipocrisia della ricchezza, l’illusione continua di un futuro migliore e un sistema giudiziario che prevede l’utilizzo della pena di morte.

Norman: “Ha detto che il comunismo è l’ideale per tutti”

Avvocato: “Quindi disprezzava il nostro grande Paese e i suoi principi”

Norman: “Tranne i musical, diceva che quelli americani sono migliori

Avvocato: “Bene, quindi l’imputata preferisce Hollywood a Vladivostok. Immagino sia una specie di complimento“.

Eppure von Trier è attento a non accusare (tutte) le persone, ma solo il sistema U.S.A. Nonostante le difficoltà, Selma è circondata da amici e amiche che le vogliono bene, compresa la guardia carceraria Brenda (Siobhan Fallon), che la accompagna nei suoi ultimi (107) passi. Il cuore puro della protagonista fa sì che le persone siano ben disposte nei suoi confronti, e facciano di tutto affinché lei si salvi. Ma il sistema è troppo corrotto e malato per permettere che i buoni sentimenti trionfino.

Conclusioni

Dancer in the dark è il terzo e ultimo capitolo della c.d. Trilogia del cuore d’oro, composta anche da Le onde del destino e Idioti. Una trilogia pensata per indagare l’animo umano, soprattutto quello delle persone dotate di una particolare sensibilità e che spesso si ritrovano schiacciate da un mondo che non le apprezza e non le valorizza. Lo sguardo perso e sognante di Björk, che riporta perfettamente questa sensazione di cecità, ma anche di ingenuità e fanciullezza, ci regala un’interpretazione che, più che attoriale, è sentimentale. Björk è Selma e Selma è Björk. Impossibile rimanere distanti, Dancer in the dark è una pellicola capace di destabilizzare anche al più cinico e nichilista di noi.

Classificazione: 4.5 su 5.

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