Usciva il 2 giugno del 1970 Il rosso segno della follia, sperimentale thriller velato di humor nero di un Mario Bava sempre alla ricerca di catturare lo spettatore. Pellicola che oggi appare datata e a tratti zoppicante, il film in realtà ha in sé alcuni semi narrativi che prolifereranno nelle opere a seguire.

TRAMA
John Harringhton è il titolare di un negozio di abiti nuziali che nasconde un’identità da serial killer, spinto all’omicidio di donne vestite da sposa per esorcizzare i suoi demoni interiori. Seduttore incallito, un giorno decide di liberarsi della moglie. Non tutto però, va per il verso giusto.

NELLA MENTE DELL’ASSASSINO
Al giorno d’oggi realizzare storie criminali che hanno come protagonista l’assassino stesso non è una novità. Un bel po’ di anni prima però il buon Mario Bava ci aveva già pensato e proprio in Il rosso segno della follia azzerava da subito le distanze tra spettatore e carnefice , facendo entrare il pubblico nella mente del killer, nei suoi pensieri malati e nelle sue pulsioni implacabili.
Tattica narrativa insidiosa certo, che svelando subito l’enigma del “chi” concentra i suoi sforzi nel “come e perché“, accettandone i possibili rischi. Qui entra in gioco la regia attenta di un maestro della macchina da presa e una sceneggiatura che (anche se perdendo verve a tratti) riesce comunque a costruire un legame tra il personaggio principale e chi guarda, incuriosendo lo spettatore sulle motivazioni di tali misfatti e su come il killer potrà cavarsela.

UN VILLAIN SENZA FASCINO
Il grosso problema di Il rosso segno della follia è la mancanza di spessore del protagonista. Vuoi per un’interpretazione monocorde dell’ingessato Stephen Forsyth (espressivo come i manichini del suo atelier), vuoi per un doppiaggio italiano che appiattisce ogni dialogo, la figura del villain che dovrebbe contendersi lo spettatore tra un senso di repulsione per i suoi crimini e una velata partecipazione alle sue peripezie, non decolla mai, risultando per la maggior parte del tempo tedioso e irritante.

AUTOCITAZIONI DI LIVELLO
Il rosso segno della follia è però anche un gioco, un esercizio di stile di un autore brillante come Mario Bava, regista che da sempre si è divertito a giocare con i generi, mescolandoli e ingannando lo spettatore con soluzioni visive e tematiche mai banali. Non poche sono le autocitazioni più o meno celate presenti nel film, dal tripudio di manichini che rimandano al mitico 6 donne per l’assassino, all’esplicito inserimento di scene tratte da I tre volti della paura, film che l’assassino sta guardando in tv all’arrivo della polizia.
Il rosso segno della follia uscì all’estero con il divertente titolo “Hatchet for the honeymoon”, anche se in realtà l’assassino usa una mannaia, titolo più funzionale a porre l’accento fin da subito sul lato ironico dell’intera operazione. In Italia invece, fin dal titolo si è cercato di evidenziare il lato più dark della vicenda, con la follia di un uomo spinto ad uccidere da pulsioni che hanno origini lontane, il solito caro vecchio trauma che fa capolino in buona parte del thrilling dell’epoca.

DA VEDERE PERCHE’?
Pur con alcuni difetti evidenti e non essendo sicuramente tra i migliori lavori di Bava, Il rosso segno della follia è una pellicola visivamente avvincente, fotografata con grande stile e scritta con la voglia di divertirsi. Un tassello comunque imperdibile per chi vuole continuare a stupirsi su quanto il maestro sanremese fosse un precursore.
Leggi anche: Cosa avete fatto a Solange? – L’adolescenza tra Blow Up e Twin Peaks