Dopo la presentazione all’ 81a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, esce oggi nei nostri cinema L’Orto americano, il nuovo film di Pupi Avati, il 55esimo per l’esattezza, stando a quanto lui stesso ha sostenuto nell’incontro stampa post anteprima a cui abbiamo assistito anche noi. Si tratta di un nuovo film horror, in particolare, a sei anni di distanza dalla sua ultima incursione cinematografica nel genere, con Il Signor Diavolo. Anche se la definizione di film dell’orrore, come vedremo, sembra in questo caso stargli decisamente stretta, e non vuole essere il classico discorso retorico.
L’orto americano – Trama
Siamo a Bologna nel 1945 e la guerra, benchè l’Italia se ne ormai fuori, si avverte ancora nell’aria e non solo, con tutte le sue conseguenze fortemente palpabili. Ungiovane si sta facendo la barba quando una donna, sottoufficiale di una delegazione statunitense, entra nella bottega a chiedere alcune informazioni. Quei pochi attimi e, soprattutto, quello scambio di sguardi segnerà indelebilmente il nostro protagonista, per sempre. Un anno dopo quel ragazzo, che si scopre essere uno scrittore, vola negli Stati Uniti in cerca di ispirazione per la sua nuova opera. Si trova, attraverso uno scambio temporaneo di case, ad alloggiare in un appartamento dell‘Iowa e a conoscere la sua vicina, una donna anziana madre di due figlie. Entrando un po’ in confidenza con lei, scopre che la sua esistenza è turbata da una grande sofferenza: Barbara, una delle sue figlie, partita come ausiliaria in Italia, ha smesso di dare da tempo sue notizie e non è più tornata a casa. Ma non è che potrebbe trattarsi della stessa ragazza vista dal barbiere e mai dimenticata? Questo sospetto diventa un ronzio che non esce più dalla testa dello scrittore. Non gli resta dunque che andare a fondo e scavare in questa storia, scavando anche nel senso più letterale del termine, proprio nell’orto della vicina, dove troverà la prima inaspettata (e macabra) sorpresa..
Quanto riportato sopra rappresenta solo l’incipit di un lungo concatenarsi di eventi e situazioni, con lo spettatore che si troverà davanti ad una galleria di personaggi affascinanti e mai banali, in perfetto stile avatiano.
L’orto americano – Dal romanzo al black & white
L’Orto americano è la trasposizione dell’omonimo romanzo scritto dallo stesso Avati, su cui ha messo mano il figlio Tommaso Avati per trarre lo script cinematografico. Entrambi hanno rivelato che l’adattamento ha comportato varie criticità. Tra le scelte tecniche per il grande schermo quella di adottare il bianco e nero in un film di genere del 2025 è senz’altro una sorpresa che potrebbe spiazzare lo spettatore e non escludo che molti potrebbero storcere il naso. Eppure mai intuizione fu più azzeccata. La vicenda, che pure ha una precisa cornice storica, si cristallizza nel tempo, e il passaggio tra l’Iowa e l’Italia si armonizza senza soluzione di continuità, seguendo il moto interiore del protagonista ed il leitmotiv della sua ricerca. Pupi Avati ha raccontato come si è arrivati a questa scelta, non attribuendosene tutti i meriti:
Il bianco e nero lo debbo a mio fratello che una volta che ha letto il copione ha detto “ma questo è un film in bianco e nero!” e in effetti, ripensandoci, questa è stata la chiave di volta di tutto un approccio che è mutato. Dopo 54 film tra televisione e cinema non avevo mai sperimentato quest’esperienza del tradurre la realtà che è a colori improvvisamente in qualcosa che non è più a colori e che quindi non è più la realtà. E’ qualcosa che assomiglia alla realtà, tuttavia è cinema. Già dalle prime immagini girate a Cinecittà mi sono reso conto che stavamo facendo il cinema, non stavamo facendo un film, stavamo facendo il cinema. Il cinema nella sua accezione di base, quello che ci ha affascinato da ragazzi, che ritrovate in un film così singolare e scolpito tra una porzione degli Stati Uniti, con dei riferimenti da Hitchcock a Ford, ad un cinema che ci ha sedotti, poi improvvisamente al neorealismo dell’Italia del primo dopoguerra, da cui Rossellini e De Sica hanno realizzato i loro capolavori. Il bianco e nero era assolutamente legittimato e mi ha dato una forza incredibile ed un entusiasmo nuovo C’è da preoccuparsi per una persona di 86 anni immaginarsi una nuova carriera di film in bianco e nero. Questo dovrebbe preoccupare il cinema.
Questo modo di girare il film ha permesso al regista di ricorrere, da un punto di vista sintattico, a modalità classiche di inquadrature e citazioni che si estendono anche al sonoro. Lo strumento guida della colonna sonora è una sega, suonata da un archetto producendo un vibrato inquietantissimo. Pupi ha ricordato come riferimento per questo tipo di accompagnamento musicale il classico La scala a chiocciola (1946).
Il cast
Difficilmente Pupi ed Antonio Avati sbagliano un casting. E L’orto americano non è un’eccezione alla regola. Reduce da È stata la mano di Dio, firmato da Paolo Sorrentino, il giovane Filippo Scotti convince nel ruolo di protagonista, soprattutto per il modo in cui il suo personaggio cresce e matura nel corso di una vicenda che sembra in qualche modo trasformarlo da ragazzo a uomo, come sottolineato da alcuni primi piani molto intensi. Una trasformazione che pure avviene velocemente, tutta nella psicologia più che nel fisico, attraverso il rarefatto filtro del black and white avatiano.
Mi sono innamorato di Filippo Scotti -Pupi Avati
Protagonista a parte, il cast funziona nella sua coralità, con volti destinati a rimanere impressi nello spettatore, come quello di Armando De Ceccon nei panni del drammaticissimo personaggio di Glauco Zagotto, Chiara Caselli in quelli dell’austera Doris e Roberto De Francesco che si cala nell’enigmatica e imperscrutabile psiche di Emilio Zagatto. Ottime le prove di Romano Reggiani e Massimo Bonetti che sono centrali nella sezione legal-thrilling che rappresenta quasi un film nel film, con la vicenda processuale che decreterà il destino del pericoloso Glauco. Tra le sorprese Morena Gentile, interpete di Arianna, “scomoda” sorella di Barbara, che ha parlato con grande orgoglio del suo coinvolgimento nel film: “Con Pupi è stata un’esperienza meravigliosa, sono davvero grata al maestro. Essere un’interprete dei suoi film significa essere parte del grande cinema italiano. La porterò per sempre con me come esperienza. La sua direzione è impeccabile, con maestria.“
L’orto americano è un ritorno all’horror?
Gli appassionati enciclopedici del cinema dell’orrore, filmografia avatiana alla mano, considerano la sua produzione cinematografica di genere degli ultimi decenni limitata a Il Nascondiglio (2007) e Il Signor Diavolo (2019), ma non ditelo a lui, che al cinema horror si sente ancora molto vicino!
“Quello all’horror è in realtà un ritorno ricorrente, un genere che non abbiamo mai tradito del tutto. Abbiamo fatto incursioni in un cinema più intimo, autobiografico, tuttavia senza dimenticare che il genere ha fatto forte il cinema italiano. Negli anni ’70 e ’80 il genere era praticato dai vari Argento, Fulci, Bava ed era largamente esportato in Europa e oltre. Adesso i registi italiani sono diventati il genere di sè stessi: Sorrentino fa film di genere “Sorrentino”, Amelio di genere “Amelio”. Il vero genere è fortemente seducente, molto più divertente da fare di qualunque altra forma di cinema, e ti auguri che piaccia a generazioni diverse dalla tua.”
Oltre che a parole, Pupi dimostra anche nei fatti di saper sviluppare con carattere .e senza freno a mano!- la componente più puramente di genere del suo film: atmosfere cupissime si respirano in sequenze come quella dell’orto, in cui si percepisce l’eco di film classici sui fantasmi, intrigante ed appassionante il legal thrilling, un quadretto alla “Un giorno in pretura” con l’elemento crime che diviene un vero enigma da districare, con personaggi che depistano lo spettatore per la loro apparenza ed altri che ammaliano con la loro cultura. E come non citare il complicato trasporto della bara, topos classico che, per l’eccellente realizzazione, si traduce in un momento di vera paura per lo spettatore, e non è l’unico.
Effetti speciali “pulsanti”
Vedi il nome di Sergio Stivaletti e passa la paura (oppure arriva, a seconda dei punti di vista). Nel comparto effetti speciali, dopo Il Signor Diavolo, Pupi Avati ritrova Sergio Stivaletti, il nostro esperto numero uno nell’ambito dell’effettistica, con uno stile che abbiamo imparato a conoscere ed amare attraverso i tanti film di Michele Soavi, Dario Argento e Lamberto Bava (serie di Fantaghirò compresa). E anche qui l’impronta artigianale di Stivaletti si fa decisamente sentire, soprattutto con una creazione pazzescache difficilmente vi toglierete dalla testa. Non vi svelo di cosa si tratta, vi basterà sapere ciò che ha detto Pupi: “volevamo tenere quella scena più lunga ma abbiamo dovuto accorciare e accorciare e accorciare.. perchè era davvero troppo forte“. Momenti di paura e di disgusto grazie al sapiente uso di tecniche in vecchio stile, lontane dalla consueto ricorso contemporaneo alla CGI. “Mio figlio che lavora a Londra con Peter Jackson mi dice che l’intelligenza artificiale spazzerà via totalmente questa professione, e questo per me è assolutamente doloroso” ha ammesso con rammarico Pupi ai giornalisti.
“Però non ci sono i grattacieli”
“In Iowa non ci sono grattaccieli” dice il nostro protagonista , non è forse l’America a cui pensava nel momento del trasferimento oltreoceano. Eppure l’Iowa somiglia, anzi, “sa” di Emilia, forse per le distese di granturco, ricordate dallo stesso Pupi in conferenza, che ha puntualizzato come quella non sia terra di soli campi, ma il primo stato degli US in cui fanno le primarie, e che di solito chi vince le primarie diventa presidente. Insomma, anche i luoghi possono ingannare, con le loro apparenze. Il trasferimento della vicenda su suolo italico può sembrare brusco, ma rappresenta il perfetto fluire scenico di una ricerca che assume ancor di più gli stilemi del gotico padano a cui siamo abituati. Una ricerca che sconvolge e fa profondamente immergere lo spettatore nella storia, con le macchina da presa di Pupi Avati che rendono il paesaggio ed il territorio dei veri protagonisti della narrazione.
Archiloco e i lirici greci
Intrigante e suggestivo l’inserimento sin dalle prime sequenze de L’orto americano di particolari rimandi e riferimenti letterari, in particolare attinti dalla tradizione lirica greca. Si cita più volte Archiloco, e non può essere un caso: è lui che parla dell’abbandono dello scudo per aver salva la vita (fr. 5 West), un comportamento non esattamente in linea con quanto decantato dalla tradizione epico-eroica dell’Ellade. Un ribaltamento di valori, anzi, di priorità, che è rappresentato in qualche modo -senza forzare troppo la mano- anche dal nostro protagonista, che, con la guerra alle spalle, abbandona tante delle sue certezze per una causa che trascende la razionalità.
Tutto in uno sguardo
Orrore e gotico padano sono ingredienti fondamentali di un’opera che parla anche di identità, di mancanza di identità e di memoria. Il protagonista è un giovane uomo che viene presentato senza nome. Sono le sue azioni a determinarne la consistenza, ed il facile appellativo di scrittore calza più nel puzzle di intrecci letterari più che nel tratteggiarne tratti stereotipici. Egli è dipinto come curioso osservatore nella fase dibattimentale svoltasi nella suggestiva cornice del convento dei cappuccini, attento indagatore nei vari colloqui che intraprende con i personaggi che incontra durante la sua ricerca, quasi a far capire che una donna come Doris lui non l’ha mai incontrata prima. Cercando Barbaracerca, forse inconsapevolmente, anche qualcosa di se stesso.
Per tutta la guerra i capelli me li ha tagliati mia madre ma oggi i miei defunti hanno voluto che fossi qui per un appuntamento che finalmente mi avrebbe cambiato la vita.
Ma una certezza sulla sua identità c’è, ed è quella legata ai cari, di cui conserva una memoria affettiva ed affettuosa, rappresentata dal rituale maniacale di portare con sè le foto di avi e familiari, talvolta di parlarci e confidare loro pensieri. Sono loro cui dà il merito di averlo fatto essere al momento giusto, al posto giusto. Il caso non c’entra per lui. Un cognome, dunque, certamente ce l’avrebbe, ma in questa storia non serve e anzi, la limiterebbe.
C’è infatti qualcosa di universale, più ancora della determinazione dell’io e della componente gotico-padana, a rappresentare il motore narrativo della storia e va rintracciato in una sensazione interiore, quella provata dal protagonista al momento dell’incontro con l’americana nel barbiere. Gli è bastato uno sguardo per capire che è lei quella giusta.
Qua c’è un sentimento di fondo legato all’amore. Come sia possibile per una persona intuire attraverso uno sguardo ed una battuta che quella è la donna della propria vita. Io sono convinto che sia così. Io sono convinto che ci sia una donna della propria vita. Io fortunatamente l’ho incontrata 60 anni fa.
Sarà l’invecchiamento, ma mi sto riconvincendo che esiste il sempre. E’ una cosa che è stata totalmente abolita dalla modernità, ma secondo me è fondamentale per l’esistenza dell’essere umano quando arriverete alla mia età: illudersi che esista il per sempre“
Ne L’Orto americano Pupi Avati dipinge grande cinema, raccontando un’affascinante storia d’amore e d’orrore, un’intima ricerca oltreoceano che diventa ossessione. Un bianco e nero inedito gestito al servizio di una sensibilità artistica e concettuale degna di un grande maestro.
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