Il 10 Gennaio è arrivata, su Disney+, “Piccoli Brividi: La misteriosa avventura” (titolo internazionale “The Vanishing”), seconda stagione del reboot sul piccolo schermo del marchio di “Piccoli Brividi” creato dall’autore R.L. Stine.
Non si tratta di una prosecuzione degli eventi della precedente stagione, ma di otto puntate che vanno a sviluppare un intreccio completamente nuovo. E’ stato pertanto scelto l’approccio delle stagioni antologiche, già sdoganato da serie come American Horror Story o True Detective.

TRAMA
I gemelli Cece e Devin si recano a Brooklyn per trascorrere le vacanze col padre, l’eccentrico botanico Anthony Brewer.
L’uomo sta conducendo dei misteriosi studi nel seminterrato di casa, a cui decide di proibire l’accesso ai figli. Il vero intrigo inizierà tuttavia quando a Brewer vengono consegnati i vestiti del fratello, che se li lasciò dietro prima di scomparire nel nulla. Sono passati ben trent’anni da quel giorno fatale, in cui si persero le tracce anche di altri quattro giovani, ma Brewer non è mai riuscito a farsene una ragione. Notando una muffa nera sulla maglia del fratello, il botanico decide di prelevarne un campione per analizzarlo. Sarà l’inizio di una serie di eventi assurdi e inspiegabili, che getteranno nuova luce sugli avvenimenti di trent’anni prima…

RECENSIONE
Da un punto di vista narrativo, questa seconda stagione di “Piccoli Brividi” è un prodotto più solido rispetto alla precedente.
Se la prima aveva potuto godere di una partenza molto forte seguita da un tracollo avvilente, queste nuove otto puntate costituiscono un insieme solido e di livello quasi sempre discreto. Innanzitutto, la scelta di ridurre di due il numero di episodi totali e di fare uscire l’intera stagione in blocco sono state scelte azzeccate, a cui la sceneggiatura si è accordata in maniera convincente. Il flusso narrativo, difatti, risulta molto più agile e si presta bene a una visione in binge-watching.
Siamo quindi di fronte a un ottimo prodotto? Purtroppo no.

Partendo dai pregi, la scelta di combinare una narrazione ibrida fra la macrotrama orizzontale e degli episodi dal sapore autoconclusivo è stata mantenuta e, anche in questo caso, costituisce un solido punto di forza. Le puntate ispirate a singoli libri di “Piccoli Brividi” (es. Un barattolo mostruoso, Al Mostro! Al Mostro!) si inseriscono alla perfezione nell’intrigo generale e, in più di un caso, risultano molto utili a dare risalto a singoli personaggi.
Un altro pregio, nonché un passo avanti rispetto alla precedente stagione, sta nelle puntate finali. Si arriva a una risoluzione del mistero che, nonostante non brilli per inventiva, è soddisfacente e non affrettata. Non manca nemmeno un colpo di scena molto carino a qualche decina di minuti dalla conclusione, che ribalta le carte in tavola in perfetto stile “Piccoli Brividi”.
Alcuni passaggi, inoltre, risultano molto più dark rispetto alla precedente stagione. Si punta decisamente più sul fattore jumpscare (non sempre un pregio) e su scelte visive più ardite. Una completa sorpresa sono alcuni passaggi che possono essere definiti, in tutto e per tutto, esempi di body horror.

La puntata più riuscita è probabilmente la sesta. Per gran parte del minutaggio, infatti, la narrazione vira verso lo stile del found footage. Oltre a offrire varietà, questo piccolo “film nel film” presenta le sequenze di suspence migliori fra le otto puntate. Il finale, in particolare, sembra uscito da un prodotto horror tradizionale e non da una serie con target giovanile. Il merito si deve probabilmente alla sceneggiatrice Mariko Tamaki, proveniente dal mondo del fumetto (sua è una delle run su Batman migliori degli ultimi tempi), che ha firmato lo script unicamente di questa sesta puntata.
Venendo ai difetti,ne emerge uno su tutti: questo Piccoli Brividi non è abbastanza Piccoli Brividi.

E’ senza dubbio apprezzabile il tentativo di riprendere suggestioni da alcune delle storie più celebri della collana ma, ancora più che nella stagione precedente, tale riadattamento è molto (forse troppo) libero. Sembra quasi che i titoli delle puntate siano un easter egg per i nostalgici più che una vera e propria indicazione sul loro contenuto. Nella precedente stagione tale elemento veniva molto stemperato dalla presenza di Slappy, mascotte del brand. Qui invece, il villain principale (non riveliamo chi sia per evitare spoiler) sembra non provenire nemmeno da un romanzo specifico della collana. A visione ultimata, per i fan, resteranno solo alcune suggestioni delle loro storie preferite e poco altro.

Nei romanzi, il ruolo degli adulti è marginale. L’intrigo deve sempre essere risolto dai giovani protagonisti, combattendo contro la limitatezza delle proprie risorse. Questo è stato probabilmente uno dei più grandi punti di forza di Piccoli Brividi, in grado di garantirne un successo duraturo attraverso le generazioni. In entrambi gli adattamenti per mano di Disney+, tuttavia, non soltanto i protagonisti hanno un’età maggiore (dalla preadolescenza all’adolescenza piena) ma il mondo degli adulti ha una pari, se non superiore importanza.
David Schwimmer in “La misteriosa avventura” interpreta molto bene il proprio ruolo, ispirato al dr. Brewer de “Il mistero dello scienziato pazzo”. Non vale quindi la pena di mettere in dubbio la bravura dell’attore, quanto la rilevanza del suo ruolo. Il dottor Brewer ne “La misteriosa avventura” passa dall’essere un comprimario ad assumere sempre più il ruolo di protagonista. E’ attorno a lui che ruota tutto, non al gruppo di ragazzi protagonisti. Molto poco Piccoli Brividi.
Se non si conoscono e amano i Piccoli Brividi, queste otto puntate offrono una dose apprezzabilissima di spaventi e intrattenimento, ma non invogliano minimamente ad approfondire il mondo portato avanti da R.L. Stine da più di trent’anni con i suoi romanzi.
