Luca Guadagnino con Queer ha realizzato una delle opere più trascendentali e intime del cinema contemporaneo, un’esperienza che è tanto visiva quanto emotiva, tanto radicale quanto profondamente personale. L’adattamento dell’omonimo romanzo di William S. Burroughs si traduce in una riflessione molto profonda ed emotiva. 

Girato in gran parte negli studi di Cinecittà (finendo poi in Ecuador), Queer è il libro di William S. Burroughs che Luca Guadagnino ha sempre sognato di adattare, come ha rivelato in diverse interviste. Era stato presentato in anteprima mondiale il 3 settembre 2024, in concorso alla 81ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, quando A24 ne ha preso i diritti per la distribuzione statunitense. In Italia invece esce questo 17 aprile 2025 con Lucky Red.

È il 1950. William Lee (Daniel Craig) è un americano sulla soglia dei cinquanta espatriato a Città del Messico. Passa le sue giornate quasi del tutto da solo, se si escludono le poche relazioni con gli altri membri della piccola comunità americana. L’incontro con Eugene Allerton (Drew Starkey), un giovane studente appena arrivato in città, lo illude per la prima volta della possibilità di stabilire finalmente una connessione intima con qualcuno. 

Disfacimento del desiderio

Il protagonista di Queer è un uomo con una psicologia complessa e tormentata, non è necessario conoscere il suo background, e probabilmente non interessa neanche a lui. Fra dipendenza e perdizione, trova un amore incondizionato e universale nei confronti di un’altra persona, Eugene. Non si tratta di amore non corrisposto, perché c’è una connessione molto forte fra i due. Entrambi sanno inconsciamente che quell’amore non potrà durare molto. Daniel Craig trasmette perfettamente la fragilità di una persona che per lungo tempo non ha trovato qualcuno da amare veramente, e viene travolto da questo ragazzo. In Queer non troverete una love story accomodante (ma insomma, basterebbe conoscere Burroughs), qui il regista riesce davvero ad andare oltre le convenzioni, trasformando l’incomunicabilità in magnetismo, dove queste due amanti non hanno più bisogno delle parole

Queer
Eugene e Lee

Nel film aleggia una malinconia radicata nel profondo, tristemente familiare, di quell’amore che trasforma irreparabilmente l’identità di una persona. Queer è un’opera fatta di sofferenza, che trascina il pubblico in un viaggio emotivo (e spirituale) senza mai cedere al sentimentalismo facile. Guadagnino non ci chiede di compatire Lee, possiamo provare a comprenderlo nei suoi fallimenti, nelle sue ossessioni, e per la sua anima frammentata. Questo approccio trascendentale trasforma Queer in un’opera che si muove costantemente tra il terreno e l’etereo, tra la carne e lo spirito. Allo stesso tempo trascende la materia per esplorare le profondità dell’animo umano, in un dialogo continuo tra presenza e assenza. La sofferenza di Lee passa da quella fisica a quella emotiva fino a diventare metafisica, un tormento che si riflette in ogni scelta visiva e narrativa di Guadagnino. 

I want to talk to you. Without speaking.”

La scenografia interamente ricostruita nel primo capitolo è volutamente irreale e onirica, e non vuole ricercare un realismo storico. Ma anche questa è una scelta audace e intelligente, perché si tratta di un film che vive soprattutto di immaginari costruiti nella mente e di realtà che si fonde con le allucinazioni del suo protagonista. Un grande regista non si limita all’adattamento fedele ma cerca di rimodellare tutto il materiale fino a raggiungere una visione personale, e in questo film c’è davvero tanto di Guadagnino.

La musica straordinaria (come al solito) del duo Trent Reznor – Atticus Ross (entrambi parte dei Nine Inch Nails) contribuisce a elevare ulteriormente questo film, ma è stato fatto un lavoro interessante anche per quanto riguarda la scelta dei brani non originali. I Nirvana (partendo dalla cover di All Apologies di Sinead O’Connor a Come as you are) e i Verdena (ottima la scelta di Puzzle) si legano bene con le atmosfere lacerate di Queer, aggiungendo un livello di intensità che cattura lo spirito irrequieto di Lee. La musica infatti non serve solo da commento emotivo, ma diventa un’estensione del tormento interiore del protagonista, un rumore di fondo che riflette il caos esistenziale in cui è immerso. Come nell’intensa scena dell’iniezione con la canzone dei New Order. 

Diviso in 4 capitoli (il quarto è l’epilogo è dura poco), presenta un terzo capitolo che è quello che trascende ed eleva il film, ma allo stesso tempo può risultare il più respingente. Fa parte dell’azzardo, quando non si cerca di andare troppo incontro alle aspettative del pubblico. Il ritmo e la non-coesione narrativa rispecchiano la mente del suo protagonista, sempre più sconnesso dalla realtà e perso in scenografie che sembrano costrutti della sua mente. Fino ad arrivare all’inevitabile e triste epilogo. Ripensando al film ho avuto come la sensazione che il personaggio del giovane Eugene fosse un fantasma, manifestatosi per alleviare il dolore di Lee. Chiaramente non è una vera chiave di lettura ma soltanto una mia sensazione, che trova comunque una sua coerenza in alcuni simbolismi e nella ricerca della comunicazione telepatica. Infatti Lee aveva come obiettivo la ricerca di una sostanza allucinogena chiamata Yagé (meglio conosciuta come Ayahuasca), nella speranza di sbloccare poteri telepatici. Incontrano un’eccentrica botanica che vive in una capanna con il suo giovane compagno (il regista argentino Lisandro Alonso) e un bradipo. Si parla di disembodimentdisincarnazione. Raggiungere un livello spirituale per cui il corpo diventa superfluo, le anime si fondono fra loro e l’unione fra queste diventa universale

Queer

Eugene Allerton: I’m not queer. Lee… I’m not queer.

William Lee: I know.

Eugene Allerton: I’m disembodied.

Queer è un film che respira attraverso le sue contraddizioni, che sfida lo spettatore a confrontarsi con l’inesprimibile, trovando nella sua ambiguità il punto di forza. Un’atmosfera densa e malinconica pervade ogni inquadratura, perché l’amore è sia una maledizione che una liberazione. Se la prima parte è dominata dal desiderio e da un romanticismo sospeso, la seconda metà si avventura in territori visivi ancora più audaci. Guadagnino, con l’aiuto di Justin Kuritzkes (lo stesso geniale sceneggiatore di Challengers), porta lo spettatore in un’esperienza che può scuotere profondamente e alterare la percezione. Siamo lontani dall’approccio usato in Chiamami col tuo nome – e lo dico anche come monito per gli spettatori più interessati alla trama e al coinvolgimento immediato. 

Queer

Alcune influenze cinematografiche: 

A Nuestros Amores, come l’insegna che vediamo fotografare da Eugene, è un bellissimo rimando al film À Nos Amours di Maurice Pialat, film che consiglio di recuperare. Mentre la sempre presente ombra di Bernardo Bertolucci aleggia nelle sequenze più intime e contemplative, dove i corpi si muovono nello spazio come pedine di un gioco erotico, sempre in bilico tra attrazione e repulsione. Il desiderio diventa una forza incontrollabile che annienta, piuttosto che liberare. Il respiro di Luchino Visconti nell’eleganza formale e nella cura maniacale per i dettagli scenografici, dove ogni elemento è carico di una propria simbolicità, in un affresco decadente e poetico. Rainer Werner Fassbinder nella perdizione e nel potere distruttivo delle relazioni, dove l’amore logora e consuma, trasformando il dramma individuale in un grido universale. Nel capitolo della giungla invece il regista insegue un realismo magico (e allora citiamo anche Apichatpong Weerasethakul). Qui c’è anche una sequenza che sfocia in un body horror metafisico, allucinogeno e trascendentale.

Queer

Per quanto riguarda la pittura i primi esempi che vengono in mente, almeno per la mia esperienza, sono il realismo americano di Hopper e il surrealismo di Magritte. Le scene più surreali e horror in Queer sono di una potenza impressionante. Guadagnino aveva già dimostrato di saperci fare per quanto riguarda scene più inquietanti, Suspiria e Bones and All sono fra i migliori film horror degli ultimi anni. Ma in Queer siamo di fronte a un approccio diverso, surreale e ipnotico, estremamente suggestivo. Come Lee quando osserva dentro il modellino del palazzo, guardando simbolicamente all’interno del suo corpo, mentre cammina fra i labirinti della sua mente. Il linguaggio dei sogni non è così semplice da portare su schermo, e queste scene sono un’ulteriore prova della maestria e del talento di questo regista. Guadagnino continua a superarsi con ogni lavoro – per me era difficile eguagliare il livello di Challengers (2024) o della miniserie We Are Who We Are (2020) – e uscendo dall’anteprima a Venezia ero totalmente scosso ma consapevole di aver visto qualcosa che mi ha toccato nel profondo. 

Queer

Queer lascia il pubblico in uno stato di sospensione emotiva e intellettuale. È proprio questa ambiguità a renderlo così affascinante, sedimentando e crescendo con il tempo. Un film che conserva la densità e l’ambiguità di Burroughs ma che è anche (e prima di tutto) la visione e la sensibilità di uno dei più interessanti registi contemporanei.

Classificazione: 4.5 su 5.

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