Il 29 aprile 1980 ci lasciava il Maestro della Suspense: Sir Alfred Hitchcock. Da Notorious a Psycho, da La finestra sul cortile a Gli Uccelli, Nodo alla gola, Caccia al ladro. Si potrebbe fare un lungo elenco dei titoli che hanno lasciato un segno nella storia del cinema contemporaneo. Certamente il “secondo” Hitchcock, quello del periodo dei film a colori, è stato quello più conosciuto. Vero è anche che senza film come Notorious – L’amante perduta o Rebecca – La prima moglie, forse non l’avremmo conosciuto così come poi è stato. Ed è proprio con quest’ultimo titolo che voglio ricordarlo.

Trama
A Montecarlo, un’anonima ragazza inglese (Joan Fontaine) salva dal suicidio il neo-vedovo Max De Winter (Laurence Olivier). I due iniziano poi a frequentarsi fino a innamorarsi l’uno dell’altra. Quando Max le chiede di sposarlo e di trasferirsi nella sua proprietà di Menderley, iniziano a emergere inquietanti dettagli sulla morte di Rebecca, la prima moglie di Max.
Con Rebecca – La prima moglie, Hitchcock segna il suo esordio hollywoodiano. L’adattamento dal romanzo di Daphne Du Mauriers rappresenta forse il primo grande film del Maestro della suspense. Girato in piena Seconda Guerra Mondiale, ha avuto un costo di un milione di dollari e si è guadagnato due Premi Oscar nel 1941: Miglior film e Miglior fotografia in bianco e nero a George Barnes. Un titolo troppo spesso sottovalutato che racchiude in ogni sequenza uno studio certosino della tensione, come solo Hitchcock sapeva fare.
Tre è il numero perfetto
“Un film poco hitchcockiano”, così lo ha definito il regista stesso nella sua celebre conversazione con Francois Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock. Eppure il tutto inizia da una soggettiva, elemento ricorrente nella sua filmografia, accompagnata dalla voce narrante di una donna ignota che conduce lo spettatore in un paesaggio rurale sospeso nel tempo. Lì, a Manderley, giace un grande maniero dall’aspetto spettrale. Questa è la prima delle tre parti di cui si compone Rebecca – la prima moglie, il prologo. Seguono sviluppo ed epilogo, proprio come in un dramma teatrale. Lo sviluppo può essere a sua volta suddiviso in due parti. Una prima, dove la narrazione rallenta all’arrivo di Maxim e della seconda signora De Winter a Manderley. Qui il tempo si dilata e assume la forma dell’enorme magione; il senso di grandezza amplifica quello di solitudine, inquietudine e malinconia. Si passa poi a un ritmo narrativo più serrato e ricco di suspense in crescendo, che accompagna diversi colpi di scena.

Attraverso l’utilizzo della soggettiva, Hitchcock mette lo spettatore nelle condizioni di immedesimarsi con la protagonista. E a proposito di punti di vista narrativi, in Rebecca – la prima moglie ne si possono identificare tre. Il primo è quello della giovane signora De Winter, attraverso la quale il pubblico vive ogni esperienza. Manderley sembra quasi una terra senza tempo, rimasta in un limbo dopo la morte di Rebecca. Il secondo è proprio il maniero di Manderley, un luogo al quale è ancorata la presenza della defunta moglie di Maxim. È qui che pulsa il cuore gotico della vicenda, nei ritratti appesi nei lunghi corridoi, nella scalinata e nella stanza di Rebecca chiusa a chiave.
Un incontro tra favola gotica e dramma sentimentale che inquieta e affascina, tra ossessione e dolore, tra amore e morte
Il terzo e ultimo punto di vista è quello di Hitchcock stesso che definisce il film come sopra menzionato. Il suo punto di vista contrasta con l’interpretazione di Joan Fontaine che trasmette in maniera limpida ogni emozione del suo personaggio. Si veda la sequenza in cui la governante del maniero, la signora Danvers (Judith Anderson), si lascia andare ad un monologo delirante in cui ripercorre la routine che seguiva con Rebecca. Gli occhi della seconda signora De Winter sono spalancati per il terrore, che si riflette in quelli dello spettatore.
DA QUI è ALLERTA SPOILER!
Dall’amore alla morte, dal ricordo all’oblio
Uno dei temi ricorrenti di Rebecca – la prima moglie è quello dell’uomo tormentato dall’immagine di una donna morta. Questo non può che far pensare a John Ferguson di La donna che visse due volte (1958). Si affiancano e si intrecciano amore e morte: l’incapacità di Maxim di amare la sua seconda moglie è legata al ricordo ostacolante della defunta Rebecca. Due temi che Mike Flanagan ha inscenato brillantemente nella serie The Haunting of Bly Manor (2020). Curioso notare che una dei protagonisti, Rebecca Jessel (Tahirah Sharif), è morta in circostanze più o meno simili alla Rebecca di Hitchcock. A Bly c’è un maniero esattamente come a Manderley, ci sono anime legate a un luogo.

Altra analogia, sicuramente più lontana rispetto alle due precedenti, è quella con La casa di Bernarda Alba, l’opera teatrale di Federico García Lorca. Il lutto è un ostacolo che impedisce di andare avanti, di archiviare il passato. Come Bernarda Alba proibisce alle figlie e all’anziana madre di avere contatti con l’esterno dopo la morte del marito, così la presenza di Rebecca offusca la vista di Maxim facendolo rimanere ancorato al passato. Un lutto forzato e uno subìto.
Identità e ricordo
Il personaggio di Rebecca nel film di Hitchcock è forse l’emblema del mistero di questa vicenda. Il suo nome appare nel titolo ed è sulla bocca di tutti i personaggi, la sua iniziale è su fazzoletti di stoffa, federe, quaderni. Nonostante tutto ciò non compare mai sullo schermo, eppure si ha la sensazione che dietro una tenda, fuori da una finestra o per i corridoi lei ci sia. Questa sensazione è chiaramente amplificata dall’atteggiamento della signora Danvers, che ossessivamente ricorda alla seconda signora De Winters tutto ciò che Rebecca faceva. Dall’altra parte abbiamo la seconda signora De Winters: non si sa il suo nome, nemmeno nel romanzo. Hitchcock a tal proposito ha detto che “Non la chiamavano mai per nome”. Un’anonima ragazza che si sente stretta e a disagio circondata da tanto sfarzo e una servitù onnipresente a Manderley.
Nonostante sia uno dei film meno gettonati, per così dire, di Hitchcock, Rebecca – la prima moglie rimane uno dei più grandi film del Maestro della Suspense. Una vicenda che si articola fra dramma teatrale, storia gotica e romanzo di formazione, mescolando gli elementi del giallo con quelli del melò e strizzando l’occhio al sovrannaturale.
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