Il 17 giugno 1927, precisamente 98 anni fa, nasceva Lucio Fulci. Passa alla storia con il soprannome di “poeta del macabro” e Godfather of gore e, non a caso, è ricordato, tra le sue opere, per la sanguinaria trilogia della morte – Paura nella città dei morti viventi (1980), …e tu vivrai nel terrore! – L’aldilà (1981), Quella villa accanto al cimitero (1981). Per omaggiare il ruolo che Fulci ha avuto nell’immaginario horror, analizziamo Sette note in nero (1977), uno dei gialli più celebri della sua carriera. Girato fra Italia e Regno Unito, doveva essere inizialmente un adattamento del romanzo di Vieri Razzini, Terapia mortale, progetto sostituito da una sceneggiatura che segue le orme di Profondo Rosso e del racconto di E.A. Poe, Il gatto nero.
Trama
Protagonista della vicenda è Virginia (Jennifer O’Neill), una donna che sin dall’infanzia possiede il dono della chiaroveggenza. Durante la sua permanenza in un collegio a Firenze ha una visione del suicidio della madre a Dover, in Inghilterra. Passano gli anni e, ormai adulta, Virginia sposa Francesco Ducci (Gianni Garko), uomo d’affari toscano. Un giorno, dopo aver accompagnato il marito in aeroporto, mentre torna a casa in macchina, ha un’altra visione in cui vede una donna anziana uccisa e murata da un uomo zoppo in un’antica villa abbandonata. Scioccata, racconta l’episodio al suo amico e psicologo Luca Fattori (Marc Porel), esperto in parapsicologia, che, inizialmente, dà poco peso alla sua testimonianza. Virginia identificherà il luogo della sua visione nel salotto della proprietà di famiglia del marito, nella campagna toscana. Lì troverà uno scheletro che sembra essere quello di Agnese Bignardi, ragazza scomparsa nel 1972. I principali sospettati sono Francesco, in passato amante di Agnese, e il professor Emilio Rospini. La caccia al killer è appena iniziata.

A metà fra giallo e soprannaturale
Lucio Fulci firma con Sette note in nero uno dei suoi thriller più eleganti e avvincenti. Lontano dagli eccessi splatter che caratterizzeranno la sua produzione horror successiva, il film si distingue per una costruzione narrativa raffinata e un uso magistrale della tensione, dove il soprannaturale si intreccia con il giallo classico, creando un’atmosfera in bilico tra sogno e realtà. Fulci gioca con la percezione dello spettatore, costruendo un puzzle visivo e narrativo al tempo stesso, che si svela progressivamente, mantenendo alta la tensione fino all’ultima scena.
La regia è precisa e stilisticamente impeccabile: ogni inquadratura è studiata per amplificare il senso di inquietudine. La narrazione si articola attraverso visioni e premonizioni di Virginia. Ad accompagnare il tutto, la colonna sonora di Franco Bixio, Fabio Frizzi e Vince Tempera con il suo ipnotico motivo musicale che accompagna le visioni della protagonista. Motivo che ritorna anche nel titolo del film. Una melodia a metà fra il malinconico e l’inquietante, che sorprende lo spettatore in un finale per nulla scontato. Per accentuare la percezione alterata della protagonista, Fulci utilizza spesso inquadrature soggettive che mettono lo spettatore nei suoi panni, enfatizzando il coinvolgimento emotivo. I dettagli degli occhi sono un elemento ricorrente nella filmografia di Fulci.
“L’occhio frustrato, traviato, distrutto, per me significa anche perdita della ragione. L’occhio è un preciso riferimento surrealista e dadaista”
– Lucio Fulci

Gli occhi di Virginia compaiono a tutto schermo, dapprima quando ha la premonizione della morte di sua madre e poi in ogni step della ricostruzione di quell’inquietante visione dell’anziana donna uccisa. La trama, dallo schema articolato e complesso, segue le caratteristiche tipiche della struttura del giallo, che si scontrano con la spettrale villa della famiglia Ducci. L’arredamento coperto da lenzuola, l’ambiente diroccato, vecchi quadri, il silenzio assordante nelle stanze e nei corridoi. Il set perfetto per una ghost story. Il sonoro gioca un ruolo fondamentale nell’articolazione della suspense: il motivo del carillon, i passi dell’uomo zoppo, le musiche che irrompono in ogni sequenza in cui la protagonista scopre qualcosa di nuovo. Tutto funzionale ad un film che vive di colori vividi e dialoghi abilmente studiati.
La vicinanza a Profondo Rosso
Fulci predilige un montaggio frammentato, alternando le visioni di Virginia in una serie di dettagli, riuscendo ad inquietare limitandosi ad inquadrature di oggetti. Un taxi giallo, un posacenere di marmo blu su cui è poggiata una sigaretta, un uomo zoppicante, una stanza rossa, un quadro, una riproduzione di Vermeer con una scritta a pennarello nero. A destabilizzare, volutamente, l’equilibrio di questo insieme è la testa fracassata di un’anziana donna. Il sangue qui è appena accennato, quasi a dimostrare che Sette note in nero potesse stare in piedi anche senza l’eccesso di splatter. E in effetti così è stato. Nonostante ciò, è inevitabile il paragone con Profondo rosso di Dario Argento. Si parta dalla scena in cui Virginia distrugge il muro dietro al quale troverà lo scheletro, che ricorda David Hammings nella villa del Bambino Urlante. Gli specchi, i quadri, la dimora inquietante e soprattutto il leitmotiv che in entrambi i film si conferma il vero protagonista della vicenda. Il parapsicologico, tema ricorrente in molti scritti di Stephen King per esempio, si fonde con il thriller.

Sette note in nero rimane ad oggi uno dei, se non, il migliore giallo firmato da Lucio Fulci. Un’opera che rompe gli schemi nella produzione di Fulci, un’opera basata sullo sguardo, che sia quello della protagonista rivolto a un oggetto, quello della camera verso un angolo buio o quello dello spettatore sullo schermo. Fra reale e immaginazione si colloca questo gioiello del giallo italiano.
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