Il seguente articolo contiene SPOILER della nona stagione di American Horror Story.

1984” è la nona stagione di American Horror Story, l’ultima ad essere andata in onda (a settembre 2019 in USA e a novembre in Italia) e l’ultima tappa (per il momento) di questi articoli dedicati all’analisi della celebre serie Tv creata da Murphy e Falchuk.

Un tributo al genere slasher

Come è chiaramente intuibile dal titolo questa nona stagione di AHS è ambientata negli anni ’80 e riprende un genere ben preciso, che “nacque” negli anni ’80 e in quello stesso periodo raggiunse il suo apice: lo slasher.

Il film Halloween – La notte delle streghe (1978) è considerato il capostipite del genere slasher anche se molti ritengono che Psyco (di Alfred Hitchcock), Non aprite quella porta (di Tobe Hooper), Black Christmas – Un Natale rosso sangue (di Bob Clark) e Reazione a catena (di Mario Bava) siano i film ad aver inaugurato effettivamente questo genere. Tuttavia, fu il film di Carpenter a ispirare una serie di pellicole slasher successive. La stessa saga di Halloween conta ad oggi ben undici film (più altri due in produzione). Nel 1980 uscì anche Venerdì 13 (anche questo ebbe numerosi seguiti), nel 1984 Nightmare – Dal profondo della notte e nel 1988 La bambola assassina. Per non dimenticare tutti quei B-movie, non molto noti in Italia, come Sleepaway Camp, The Burning, Non entrate in quella casa, Natale di sangue, Compleanno di sangue, Weekend di terrore, Final exam, Nel buio da soli e moltissimi altri.

Anni ’90 e 2000

Ovviamente il genere non si è concluso con la fine degli anni ’80: basti pensare alla saga di Scream, a So cosa hai fatto (e i vari seguiti), alle pellicole di Rob Zombie, ai vari home invasion (You’re Next, The Strangers, Alta Tensione) ed infine ai vari sequel dei film citati sopra.

Insomma, il genere slasher include quell’insieme di film in cui il protagonista è un killer (un maniaco) che dà la caccia ad un gruppo di persone in uno spazio delimitato (spesso in un campo estivo o in una casa) e le uccide, generalmente, con armi da taglio.

American Horror Story: 1984 riprende gli archetipi del genere slasher e costruisce una stagione fatta di tributi, cliché e stereotipi. L’ambientazione è proprio quella di un campo estivo e i protagonisti (nei primi 5 episodi) sono cinque ragazzi (interpretati da Emma Roberts, Billie Lourd, Cody Fern, Gus Kenworthy, Deron Horton) che inizieranno a morire uno dopo l’altro nel corso delle varie puntate.

Le due macrostrutture della stagione

Come Roanoke, 1984 è una stagione che può essere divisa in due macrostrutture. Nella prima macrostruttura troviamo gli episodi dal primo al quinto, ambientati nel 1984 e che riprendono la tipica costruzione di un film slasher. Questi primi cinque episodi si sviluppano in un’unica notte: tra flashback, situazioni violente e colpi di scena, molti protagonisti troveranno la morte per mano di Richard Ramirez, Mr. Jingles e la spietata Margaret Booth.

La seconda macrostruttura è, invece, composta dagli ultimi quattro episodi ambientati nel 1989. Brooke (l’unica ragazza sopravvissuta) e Donna (la falsa infermiera che aveva scatenato Mr. Jingles nel campo estivo nel 1984 per “studiarlo”) torneranno al Camp Redwood, luogo del massacro di cinque anni prima, per vendicarsi di Margaret Booth (la quale è riuscita a farla franca facendo ricadere tutte le colpe su Brooke).

Il tema del limbo, come in Hotel e in Murder House

Il Camp Redwood, dove gran parte dei personaggi vengono uccisi nei primi episodi della stagione, costituisce un limbo, proprio come l’Hotel Cortez (stagione 5) e la Murder House (stagione 1): chiunque muoia all’interno del campo estivo, infatti, continua a vivere lì assumendo l’immagine di “fantasma”. Un tema comune in American Horror Story, ma anche molto ambiguo: cosa rende la casa, l’hotel e il campo estivo luoghi sovrannaturali in cui le anime rimangono intrappolate in eterno?

Forse lo scopriremo nelle prossime stagioni.

L’ipocrisia di Margaret Booth: aspra critica al conservatorismo cattolico

Raccontare la trama di AHS 1984 sarebbe complesso e superfluo: sono molti i plot twist che ribaltano le situazioni e i ruoli dei personaggi e una narrazione in forma scritta sarebbe inutile e confusionaria. Per questo preferisco, come ho già fatto per altre stagioni, soffermarmi su alcuni personaggi e approfondire alcune caratteristiche di questa nona stagione.

Uno dei personaggi più interessanti di American Horror Story: 1984 credo proprio che sia quello interpretato da Leslie Grossman: Margaret Booth. Margaret è la proprietaria di Camp Redwood e fin dalla prima puntata racconta ai nostri protagonisti di essere stata l’unica sopravvissuta al massacro che era avvenuto nel campeggio nel 1970 per mano di Mr. Jingles. Margaret afferma di aver voluto riaprire il campo per dimenticare tutto quel dolore e quella violenza e per farlo tornare quel luogo di puro divertimento e amore che era prima del fatidico giorno.

Del personaggio di Leslie Grossman però ci viene mostrato subito anche un’altra sfaccettatura: la donna è completamente devota a Dio per averle salvato la vita e manifesta questa sua fede con comportamenti bigotti e un atteggiamento puritano. Fin da subito vieterà ai cinque protagonisti (i capigruppo del campeggio) di avere rapporti sessuali, di vedersi nelle ore notturne e di consumare alcool e droghe. Divieti che i ragazzi e il capo delle attività Trevor (Matthew Morrison) violeranno, deridendoli continuamente.

Giù la maschera

Margaret, dietro questa falsa veste perbenista, nasconde però un enorme segreto, che costituisce il grande colpo di scena dei primi episodi: è stata lei, infatti, nel 1970 a massacrare i campeggiatori e, dopo essersi ferita e amputata un orecchio, ha fatto ricadere le colpe su Mr. Jingles. È proprio Margaret che professa amore e purezza dell’anima, il personaggio più subdolo, violento e crudele. Come nelle altre stagioni Murphy e Falchuk, attraverso i loro personaggi dotati di poliedriche sfaccettature, attaccano duramente un gruppo preciso di persone: in questo caso tutti coloro che, attraverso la religione, motivano e giustificano l’odio e l’intolleranza.

La stessa Margaret in un dialogo con lo spietato killer Richard Ramirez dirà:

Io ti capisco, Richard. Vuoi sapere un’altra cosa meravigliosa su Dio? Puoi usarlo per spiegare perché è successo qualcosa, ma puoi anche usarlo per spiegare perché tu hai fatto qualcosa. Anche qualcosa di orribile. Non è fantastico?

Il tema della religiosità corrotta torna in 1984 anche se in modo leggermente più velato rispetto ad Asylum.

Il dualismo degli anni 80

Molto interessante è la caratterizzazione degli anni ’80 che sono il vero protagonista di questa stagione. Numerose pellicole e serie televisive recenti hanno riportato in vita gli anni ’80: basti pensare al grandissimo successo di Stranger Things o di IT (di Muschietti). In queste opere, e in molte altre, si ha una rappresentazione estremamente positiva (a tratti surreale) degli anni ’80. Invece, in AHS la raffigurazione degli anni ’80 non è spiccatamente positiva: in questa nona stagione emergono le ombre di un decennio che, indubbiamente, non era perfetto. In 1984 emergono luci e ombre degli anni ’80 in una sorta di dualismo manicheo in cui, come in Apocalypse, spesso il male finisce per prevalere.

L’eccessiva presenza di droghe, l’esecuzione capitale di una ragazza innocente, la fama e il successo ottenuta sulla pelle degli altri esseri umani, la celebrazione di personaggi negativi (come Ramirez) e l’aumento dei femminicidi sono i veri “fantasmi” degli anni ’80, fantasmi dimenticati in Stranger Things e in IT, ma che continuano ad aleggiare su tutta l’America.

La nostalgia del tempo passato

Ovviamente gli anni ’80 non vengono rappresentati unicamente in modo negativo. Nella scena finale quando Bobby, il figlio di un redento Mr. Jingles, va al campeggio per parlare con il fantasma del padre (siamo già al 2019) egli si trova faccia a faccia con gli anni ’80: gli indumenti dei fantasmi e la loro ossessione per l’aerobica lo immergono in un’epoca passata che emerge improvvisamente e con preponderanza con tutte le sue luci ed ombre (con Richard e Margaret che cercheranno di ucciderlo e altri fantasmi che faranno di tutto per salvarlo). Alla fine Montana (Billie Lourd) lo inviterà a scappare:

Va’ via da qui. E non tornare più! Ma non ci dimenticare. Racconta le nostre storie ai tuoi figli e vivremo per sempre. Gli anni ’80 non moriranno.

 Camp Redwood diventa così la prigione degli anni ’80: un luogo in cui è racchiusa la gioia e la sofferenza di un decennio.

La triste storia di Mr. Jingles

Mr. Jingles è uno dei personaggi più complessi di questa stagione: se inizialmente appare come il classico villain degli slasher, presto egli diventa il personaggio più prismatico di tutta la stagione.

Jingles inizia a uccidere a Camp Redwood perché è convinto di essere uno spietato assassino: incolpato da Margaret per la strage del ’70 e sottoposto a continui elettroshock, lui ha finito per convincersi di essere un vero carnefice. Solo quando, nella notte del 1984, Margaret gli svelerà la verità egli capirà di essere stato innocente fino a quel momento.

Jingles riesce a fuggire con Ramirez da Camp Redwood e inizia a “vivere” con lui, per poi denunciarlo a causa degli innumerevoli omicidi commessi da Richard. A questo punto vediamo come Jingles fugga in Alaska nel tentativo di vivere una vita normale: sposa una donna e ha un figlio. Nel 1989, però, Ramirez evade e uccide la moglie di Jingles promettendo che tornerà per eliminare anche il figlio: è questo l’evento che fa scattare nuovamente l’istinto omicida dell’uomo. Jingles tonerà a Camp Redwood per eliminare Richard (che era diretto lì per assistere ad un concerto organizzato da Margaret) e sarà proprio a questo punto che scopriremo che la madre e il fratello di Jingles erano morti a Camp Redwood molti anni prima (1948).

Jingles, il cui vero nome è Benjamin, fu incolpato dalla madre per la morte del fratello (avvenuta in un incidente). La donna, Lavinia, tentò addirittura di ucciderlo per vendicarsi ma Benjamin riuscì ad avere la meglio. Lavinia morì e la sua anima restò intrappolata nel campeggio.

Il tema della maternità

Quando Jingles ritorna nel 1989 si vede costretto ad affrontare la madre, che non lo ha ancora perdonato. Tuttavia, ben presto le acque tra i due si calmeranno: ascoltata la storia di Jingles Lavinia lo comprende e promette che farà di tutto per evitare la morte di suo nipote. In un commovente finale (del settimo episodio) Jingles si suiciderà per poter affrontare Ramirez senza rischiare di soccombere. Attraverso il personaggio di Lavinia ritorna il tema della maternità sottratta e della madre “matrigna”, mentre il personaggio di Jingles è l’ennesimo villain di American Horror Story che riesce a trovare la redenzione. Temi comuni (come abbiamo già visto), destinati a svilupparsi in ogni stagione, in un modo o nell’altro.

Richard Ramirez: una scelta discutibile

Una scelta degli autori e della produzione indubbiamente discutibile è quella di inserire Richard Ramirez (un serial killer e stupratore realmente esistito) tra i personaggi. Nonostante la buona interpretazione di Zach Villa il personaggio di Ramirez è troppo sopra le righe: i suoi riti satanici sono grotteschi, finendo a volte per cadere nel ridicolo. Per non parlare poi delle incongruenze storiche e narrative che si creano: Ramirez era già apparso in Hotel, ma il finale della storia del suo personaggio in 1984 non rende possibile tutto questo.

L’impressione è che il personaggio di Villa potesse essere tranquillamente inserito, ma con altro nome.

Una regia un po’ anonima

Un piccola/grande critica che posso fare a questa stagione è quella alla regia degli episodi 2-3-4-5. Molti slasher anni ’80 erano famosi per una regia amatoriale, fatta di intuizioni geniali e movimenti di macchina formidabili, seppur “artigianali”. Abbondavano le soggettive e le riprese con camera a mano, anche per la mancanza di attrezzature costose e professionali. Se questo stile registico viene ripreso (anche se solo in parte) nella prima puntata, risulta in seguito totalmente assente nelle quattro successive, in cui si ha una buona regia, semplice e lineare, che non stupisce né ricrea l’atmosfera di quei B-movie degli anni ’80.

 

American Horror Story: 1984 è una stagione molto interessante. La colonna sonora è uno dei punti di forza di una stagione che chiunque ami lo slasher apprezzerà tantissimo. Nei suoi 9 episodi vengono sviluppati molti temi interessanti: la critica all’ipocrisia cattolica e la demitizzazione degli anni ’80 sono solo alcuni di questi. Una stagione quindi non esente da difetti, ma che diventa una lettera d’amore nei confronti di un genere che ha caratterizzato un decennio.

RINGRAZIAMENTI

Conclusa questa serie di 10 articoli su American Horror Story volevo ringraziare alcune persone che mi hanno aiutato in questo percorso. Innanzitutto, un ringraziamento va a tutto lo staff di Horror Italia 24 che mi ha permesso di scrivere questi dieci articoli, dandomi piena fiducia e libertà di scrittura.

Grazie a Roberta che li ha pazientemente riletti, suggerendomi anche aggiunte e approfondimenti.

Infine, un grazie particolare a tutti voi che avete letto, commentato e condiviso queste mie lunghe analisi sulla serie che, come avrete ben capito, mi ha colpito fin da subito per le sue complesse caratteristiche: American Horror Story.