Il 14 Marzo 1964 arrivava nelle sale italiane “Sei donne per l’assassino” di Mario Bava. La pellicola, data la presenza di scene di violenza abbastanza audaci per l’epoca, ricevette il divieto ai minori di 18 anni e si rivelò un sostanziale fallimento al botteghino.

Tuttavia, col tempo, il film ha potuto ricevere il dovuto apprezzamento in virtù di scelte di trama e messa in scena che lo rendono un evidente precursore della direzione che il genere thriller avrebbe preso da lì a pochi anni.

La trama può essere condensata in pochissime parole: un assassino dal volto coperto prende di mira le modelle di un atelier di moda, con il presunto intento di appropriarsi del diario di una di esse.

L’ottimo tema musicale di Carlo Rustichelli, con cui si apre la pellicola, sembra racchiudere in sé lo spirito dell’intera vicenda, con tonalità accattivanti e suadenti che traghettano lo spettatore verso un mondo di apparenze e inganni. Passano pochissimi minuti prima che venga introdotta la tematica della dipendenza da sostanze, con l’antiquario Franco che chiede una dose alla modella Nicole, con la quale intrattiene una relazione alle spalle della compagna Isabella. Fin da subito la sceneggiatura di Mario Fondato (a cui collaborò anche Mario Bava) ci mette in chiaro come il mondo della moda sia un grazioso contenitore di un microcosmo di complotti e discordie. Un semplice vestito, alla pari dei tanti confezionati dall’atelier, che serve per coprire dei manichini putrescenti. Non a caso i titoli di testa vanno a mettere in evidenza tale parallelismo, con gli attori del film che posano accanto a dei manichini.

Al dualismo fra la grazia e la corruzione si affianca l’immancabile contrapposizione fra la vita e la morte. Al killer di “Sei donne per l’assassino” viene attribuito ben presto un movente, ovvero il recupero del diario della modella Isabella, che presumibilmente contiene informazioni compromettenti. Se tuttavia il raggiungimento di uno scopo tanto preciso può far ipotizzare un modus operandi diretto e senza remore, le effettive uccisioni ci restituiscono un quadro del tutto differente. Siamo di fronte a una figura che trae palese piacere dal cacciare le proprie vittime, dal giocare con la loro inquietudine e fare loro del male. Emblematiche in tal senso sono due uccisioni. La prima avviene attraverso l’uso di una sorta di guanto dotato di punte acuminate, che può peraltro ricordare la maschera de “La maschera del demonio” (1961) o la vergine di ferro de “Gli orrori del castello di Norimberga”(1972), entrambi diretti da Bava. La seconda arriva, al culmine di una sequenza di tortura, con l’uso del metallo rovente di una stufa. Un primo piano del volto ustionato della vittima era stato girato, ma tuttavia scartato in fase di montaggio. Il film fu pertanto criticato per il suo inutile sadismo e condannato al divieto per i minori di 18 anni.

I tempi sarebbero cambiati di lì a breve, con l’avvento del giallo “argentiano” prima e dello slasher poi (ricordiamo che Mario Bava diresse anche “Reazione a catena”, considerato un capostipite del genere). A “Sei donne per l’assassino” va poi riconosciuto il merito di avere introdotto il concetto di body-count (un numero elevato di vittime), come già desumibile dal titolo, e una certa creatività nelle uccisioni. Questi fattori, assieme agli aspetti visivi, sarebbero stati ampiamente ripresi negli anni a venire da innumerevoli cineasti. Degno di nota è poi il ruolo marginale ricoperto dalle forze dell’ordine, che non contribuiscono minimamente alla risoluzione del caso. L’ispettore Silvestri, colui che si occupa delle indagini, è difatti un personaggio molto poco caratterizzato e alquanto fallace.

Queste ultime caratteristiche permettono di accostare la pellicola di Bava a un fenomeno che stava esplodendo in Italia nel medesimo periodo: il fumetto nero. Nel 1962 era uscito il primissimo numero di Diabolik (nel 1966, Bava ne avrebbe diretto un adattamento) e nel 1964, anno dell’uscita del film, sarebbe arrivato anche il primo numero di Kriminal. È con Kriminal che “Sei donne per l’assassino” condivide più caratteristiche, in primis la presenza di un assassino mascherato dalla spiccata crudeltà e di un ispettore che non riesce in alcun modo a ostacolarlo. Se Diabolik era divenuto in breve tempo una sorta di anti-eroe, Kriminal avrebbe fatto della propria violenza esasperata un marchio di fabbrica. Nel dicembre 1964 sarebbe uscito il famigerato “Omicidio al riformatorio”, quinto numero della testata, la cui crudezza di temi avrebbe portato a un vero e proprio processo di fronte alla Procura della Repubblica. Ve ne consigliamo la lettura, potreste trovare non poche similitudini con la trama di “Sei donne per l’assassino”.

Alquanto innovativa è poi la rivelazione sull’identità dell’assassino (SPOILER), con la scoperta che dietro alla maschera del killer si celavano in verità due persone distinte. Un celebre esempio (di molto successivo) di tale espediente è dato dalla saga di Scream, in cui Ghostface non è altro che un contenitore per differenti personaggi.

Bava curò soltanto parzialmente la sceneggiatura, tuttavia riuscì a infondere la propria mano in ogni singolo aspetto della messa in scena. Basterebbe la prima inquadratura per capire che ci si trova di fronte a un film del regista romano.

Esterno,notte. Un insegna metallica cigola, scossa dal vento, sotto a un temporale. Una catena si spezza e l’insegna cede, permettendo di avere una complessiva della facciata di una lussuosa villa. La macchina da presa si avvicina all’edificio. Le luci al piano superiore sono accese, delle ombre si muovono dietro alle tende.

Il temporale, il sussurro del vento, la luce azzurra dei lampi che illumina l’edificio. Questi elementi, di cui Bava era un maestro, ci trasportano da subito di una dimensione di mistero, quasi gotica. Le luci, in particolare, sono una sorta di personaggio non parlante della pellicola. Luci colorate, spesso non provenienti da nessuna reale fonte all’interno della scena, fanno capolino in svariati passaggi del film. Quando Nicole viene attirata dall’assassino nella bottega di Franco, suo amante, assistiamo a un vero e proprio tripudio cromatico. In una bellissima inquadratura, vediamo la ragazza scappare dal killer attraverso il riflesso di uno specchio. L’illuminazione viola e verde, assieme alla distorsione delle linee, riassumono al meglio l’atmosfera simil-onirica in cui Bava adorava calare i propri personaggi.

L’unica fonte di luce concretamente presente all’interno della scena è un neon lampeggiante posto al di fuori della bottega di Franco. Sullo sfondo si alternano quindi illuminazione e oscurità, in un semplice quanto efficace gioco di suspense. È curioso notare come un neon lampeggiante faccia da sfondo al passaggio a una dimensione onirica anche nel recente “Ultima notte a Soho” di Edgar Wright. Non a caso, lo stesso Wright ha ammesso di aver preso ispirazione proprio dai primi lavori di Bava e Dario Argento.

Infine, non si può non far presente la modernità nell’aspetto del killer. La presenza di un assassino con abito e guanti neri sarebbe diventata una soluzione visiva associata saldamente al giallo all’italiana, mentre il volto coperto (che permette delle complessive sull’assassino senza comprometterne l’identità) sarebbe divenuto un marchio di fabbrica del cinema slasher.

In definitiva, “Sei donne con l’assassino” non è un film che fa della trama cervellotica o l’approfondimento dei personaggi il proprio punto di forza. La pellicola di Bava, tuttavia, riesce in un compito ben più arduo: quello di essere moderna anche a 58 anni di distanza.

Classificazione: 3.5 su 5.

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