Norvegia, Tina incontra Vore in una contemporaneità di realismo fantastico.

Il regista iraniano-svedese Ali Abbasi osserva in dettagli e primissimi piani e insetti; e piedi e occhi non puramente umani; e funghi e cortecce e pioggia. Lo spettatore è guidato da un comparto sonoro placido e calmo in un sentimento di attesa malinconicamente mai raggiunto come accade alla vita delle larve – concettualmente simili al personaggio di Tina – destinate a non concludere la loro metamorfosi in insetti perché divorate dal personaggio di Vore; al tempo stesso il suono raggiunge momenti di alta e potente lirica naturalistica come in occasione di un temporale talmente funesto da ricordare i tuoni causati dai litigi coniugali tra Oberon e Titania, re e regina delle fate resi celebri da William Shakespeare in Sogno di una notte di mezza estate (Tina stessa confida a Vore di immaginare fate danzare e vivere nel bosco dietro casa). A. Abbasi genera un’opera di calma e furia e di certezza e dubbio, come a seguire un romanzo investigativo di genere misto all’orrorifico – Tina stessa legge il romanzo En plats i solen (Freddo sud), un thriller investigativo della scrittrice bestseller svedese Liza Marklund.

A. Abbasi si sofferma sulla centralità della creatura come parte integrante di un contesto sociale senza nessun argine esistenziale o differenza ontologica: «Per me il film non parla della contrapposizione Noi/Loro ma di una persona che può ed è in grado di scegliere la propria identità. Voglio credere che tutti siamo in grado di scegliere chi essere», ha dichiarato il regista in occasione della distribuzione cinematografica della propria opera.

La sceneggiatura analizza splendidamente l’aspetto di rottura e di evasione dalle rigide gerarchie estetiche e ideologiche che la società impone a un individuo affinché questi possa considerarsi parte di una normalità collettiva (mentre Vore divora le citate larve Tina lo ammonisce con le parole «Non dovresti mangiarle»; e Vore chiede «E chi lo dice?». «Tutti» è la risposta sociale di Tina); il regista, come riportato nell’estratto dell’intervista, effettua una rottura di disobbedienza civile – in linea all’operato naturalistico di Henry David Thoreau – tentando (a mio giudizio, non completamente) di non innescare nessuna rivoluzione sociale perché la pellicola non intende creare divisione e differenziazioni.

La scenografia aiuta poeticamente a reggere il verde impianto antisociale di H. D. Thoreau presente in Walden ovvero Vita nei boschi. Tale ricostruzione è effettuata anche tramite un lavoro concettuale e antropomorfo sulla fauna boschiva: una volpe e un alce cercano un contatto con Tina incarnando rispettivamente il tema della contrapposizione sociale e la tematica sulla ricerca dell’identità. Nella mitologia norrena la volpe – collegata al dio Loki – rappresenta la funzione narrativa del trickster ovvero la figura animale o umana predisposta alla rottura degli schemi sociali precostituiti che innesca la nascita del topos del mondo alla rovescia in cui le norme, i ruoli e le relazioni sociali seguono per un breve periodo una nuova struttura collettiva (il carnevale era in origine un esempio di questa struttura narrativa: un servo per un giorno deride il padrone tra lo scherzo goliardico e la sincera satira – in Border Vore utilizza il rovesciamento dei ruoli per ridare dignità al proprio ruolo di Creatura sebbene sostituisca la beffa carnevalesca con il cinismo della vendetta); l’alce è invece presente in una scena del poema nordico Kalevala in cui la cattura fraudolenta dell’animale genera nel suo padrone Hiisi – creatura dettagliatamente presente in Border – la perdita del ruolo identitario dell’uomo predisposto alla cura divina della caccia e della selvaggina.

La costruzione della sceneggiatura sembra proseguire un ragionamento narrativo iniziato con Shelley, precedente e primo lungometraggio di A. Abbasi: nella pellicola di esordio il regista affronta le motivazioni e gli intenti – spesso nati da forzatura e da egoismo – dietro la nascita di una Creatura e successivamente analizza in Border le conseguenze della crescita, della maturazione e dell’inserimento della Creatura nella società con un interrogativo rivolto alla ricerca sull’identità di genere sia a livello individuale (Tina si interroga sulla propria identità) sia a livello relazionale e coniugale (Tina deve accettare o rifiutare scelte riguardanti la propria fisionomia sessuale).

Il regista traspone su schermo una rivisitazione metafisica del romanzo Frankenstein di Mary Shelley divisa in due parti: in Shelley si analizza il concetto della creazione soffermandosi sul dramma della maternità (il tema è duplice sia in M. Shelley sia in A. Abbasi perché entrambi descrivono la scomparsa della maternità sia come perdita della figura genitoriale della madre sia come morte del frutto materno ovvero un figlio); in Border trova spazio il ragionamento sul senso di appartenenza sociale della Creatura (Vore accusa Tina di essersi adattata al mondo umano), sul rapporto tra la Creatura e Victor Frankenstein (il legame tra Tina e il padre arriva a emulare la scena gotica dello scienziato che spaventato evita lo sguardo della propria creazione filiale), sull’etica della sperimentazione scientifica e sulla differenza tra i concetti di solitudine (Tina) e isolamento (Vore).

Il film si basa sul racconto Gräns (Border in inglese e Confine in traduzione italiana) dello scrittore svedese John Ajvide Lindqvist; insieme al regista A. Abbasi e alla co-sceneggiatrice Isabella Eklöf lo scrittore ha redatto lo script della trasposizione cinematografica tratto dalla propria opera. Gräns è il primo racconto della raccolta antologica Paper Walls – Let the Old Dreams Die, pubblicato in Italia da Marsilio Editore con il titolo Muri di carta.

Il tema dell’indeterminatezza erotica e sessuale vissuta dal personaggio di Tina era stato precedentemente affrontato da J. A. Lindqvist nel romanzo Let the Right One In (Lasciami entrare) e nella sceneggiatura dell’omonima trasposizione diretta dal regista svedese Tomas Alfredson. T. Alfredson e J. A. Lindvist avevano precedentemente analizzato l’ambiguità sessuale sia da un punto di vista visivo (tramite la raffigurazione efebica del protagonista maschile Oskar e – di conseguenza – attraverso l’iconica complementarietà donna/uomo nata dalla fusione mentale, caratteriale e fisica tra i biondi capelli, la debolezza e il senso ancestrale di protezione femminea di Oskar e i capelli corvini, la forza e la propensione all’apatico comando androgino di Eli) sia da un punto di vista concettuale (tramite il dubbio emotivo sulla tematica della pedofilia in rapporto al dono della vita eterna di un vampiro) sia da un punto di vista anatomico (la sessualità di Eli è letteralmente una ferita presente sul suo corpo a causa di una transessualità impostale).

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Questi tre punti di vista sono riproposti parallelamente in Border – la reciprocità sessuale tra Tina e Vore, l’indagine investigativa sulla pedofilia (collegata al tema del feticismo dei trofei, presente anche nel romanzo Lasciami entrare) e una forzata cicatrice lombare.

La sceneggiatura di Border  insiste sul concetto dell’ambiguità attribuendo un sostrato lessicale che rafforza lo splendido lavoro svolto dal reparto del trucco e dei costumi; Vore risulta il personaggio maggiormente rafforzato da questo connubio di operato artistico: il make-up rende Vore perfettamente speculare a Tina e la scrittura dona al personaggio un’ottima (de)costruzione identitaria che prende avvio dalla scelta onomastica e si conclude in una funzione narrativa caratterizzata da eleganza e raffinatezza.

In Old Norse, l’antica lingua norrena, Vore – con le varianti Vorre, Vorr e Vör – rappresenta un nome femminile (esempio lessicale della decostruzione erotica di Vore) e indica il nome della dea della verità e della conoscenza capace di donare a una donna consapevolezza di sé (esempio della funzione narrativa del personaggio che assume il topos dell’agnizione perché Vore diventa il garante che permette a Tina di scoprire la verità sulla sua identità).

Questi ruoli sono rispettivamente sottolineati nell’utilizzo ambiguo del nome Vore in alcuni kennigar (perifrasi costruite talvolta come moderni indovinelli il cui soggetto è spesso di difficile individuazione) e nel capitolo trentacinque del manuale di poetica norrena Edda in prosa in cui si legge: «[…]Vǫr; è saggia e indagatrice, e non le si può nascondere nulla. C’è un’espressione secondo cui una donna viene detta vǫr quando diventa consapevole di qualcosa».

«Provengo da una formazione letteraria e il mio cervello continua a lavorare come quello di uno scrittore […] Da figlio della cultura iraniana, non potevo poi non inserire [N.d.C. nel film Border] elementi di realismo magico e misticismo», ha dichiarato il regista analizzando la propria opera. La base letteraria citata da A. Abbasi è profondamente presente in sceneggiatura per un ultimo punto di analisi: l’intero intreccio della pellicola trova una chiave di lettura tramite un altro meraviglioso figlio della cultura scandinava: il poema drammatico Peer Gynt – opera di Henrik Ibsen, massimo esponente della letteratura norvegese.

Peer Gynt è il prodotto di H. Ibsen in cui maggiormente emerge l’attenzione fiabesca dell’autore: un uomo di nome Peer Gynt deve trovare la propria identità esistenziale e sociale; il fulcro della ricerca è l’incontro con una troll vestita di verdi foglie, figlia del Vecchio di Dovre (il re dei troll). L’uomo chiede in sposa la principessa ma il re accetta a condizione che Peer Gynt rinunci per amore alla propria identità di uomo, accetti di indossare una coda (caratteristica fisica tipica di queste creature) e diventi un troll. Come Alice di fronte all’ambigua domanda «Chi sei tu?» rivoltale da Bruco in Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll, Peer Gynt non comprende la richiesta del Vecchio di Dovre e scosso da una crisi di identità rinuncia al matrimonio; come è possibile leggere nel secondo atto dell’opera (da Ibsen, Peer Gynt, atto II, ed. Einaudi, 1975):

VECCHIO DI DOVRE: Qual è la differenza fra uomini e troll?
PEER GYNT: Io non ci vedo nessuna differenza. I troll grandi vogliono arrostire e i piccoli graffiare… Proprio come gli uomini, per poco che possano.
VECCHIO DI DOVRE: È vero, su questo e altri punti ci assomigliamo. Ma il mattino è mattino, e la sera è sera, e tuttavia una differenza c’è. Ora ti dico in che cosa consiste: là fuori, sotto i raggi del sole, gli uomini si dicono l’un altro: «Sii te stesso». Invece qua fra i troll, il motto è: «Ti basti essere come sei!»
IL PIÚ VECCHIO TROLL DELLA CORTE (a Peer Gynt): Hai ben capito?
PEER GYNT: Mi pare oscuro.
VECCHIO DI DOVRE: «Ti basti essere come sei» figliolo, è la frase vigorosa e incisiva che deve essere la tua divisa.

Dopo M. Shelley citata nei precedenti paragrafi, un altro rappresentante del secondo romanticismo inglese spinge Peer Gynt a dimenticare l’incontro con i troll e a tornare nella propria dimora norvegese: il fantasma di Lord Byron. Il drammaturgo Rolf Fjelde in una conferenza alla Harvard University per celebrare i cento anni dalla scrittura di Peer Gynt definì il protagonista dell’opera norvegese con il termine tedesco di overgangstilstand (stato di transizione) traendo il concetto mentale di identità teorizzato in Aut-Aut da Søren Kierkegaard, anch’egli – come A. Abbasi, J. A. Lindqvist e H. Ibsen – danese esponente della cultura nordica.

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R. Fjelde scrisse quanto segue: «Qui la crisi è chiara, nella scelta assoluta che si propone (aut-aut) tra l’essere un troll («ti basti essere come sei») e l’essere un uomo («sii te stesso»). Ma Peer, lasciandosi trasportare dal gusto e dalla forza dell’abitudine, entra nel mondo dei troll finché anche questa si rivela un’alleanza troppo vincolante; si ritira impaurito e finisce con l’essere divorato dalla più intima definizione del suo io, quell’enigma impersonale, senza forma e privo di caratteristiche individuali che ricorda l’id primordiale e non differenziato (da Fjelde, Conferenza alla Harvard University, 1967)».

La fotografia sublunare di Nadim Carlsen evoca, come nei bluastri notturni di Melancholia del danese Lars von Trier, una verità paradossalmente impossibile da vedere alla chiara luce del giorno. Tina ha perso la propria identità; e con Tina il mito intero ha perduto credibilità e funzione politica e culturale: A. Abbasi denuncia la scomparsa etnografica della mitologia dalla società.

Di fronte alle strabilianti doti sensoriali, empatiche e di forza fisica di Tina e Vore  i personaggi secondari accettano perennemente una sospensione dell’incredulità (propria del realismo fantastico) come contemporanei spettatori di un cinecomic, dimenticano clinicamente le radici ancestrali della loro cultura scandinava (una dimenticanza così radicale che giunge a demolire anche la conoscenza dell’onomastica, uno tra i settori dell’antropologia che maggiormente descrive l’identità culturale di un popolo: Vore si presenta a Roland ma il secondo non comprende il nome pronunciato dal primo; ugualmente il padre di Tina rivela alla figlia il vero nome che le era stato dato alla nascita – Reva, dalla simbolica etimologia svedese di ‘colei che è lacerata in corpo e nell’animo’ – sbagliandone la pronuncia). Questa perdita culturale ha colpito anche il personaggio di Tina che in un dialogo con Vore afferma «Sembra una fiaba. Non credo nelle fiabe; ma uno dovrebbe crederci. Forse»; e la risposta di Vore rappresenta uno splendido e sintetico uso della parola, «Magari».

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L’identitarismo è una scelta politica estremamente sbagliata e concettualmente ridicola nonostante riceva attualmente numerosi consensi elettorali (nei Paesi della penisola scandinava è storicamente forte la componente politica identitaria, dal Partito del Popolo Danese in Danimarca al Partito del Progresso in Norvegia ai Veri Finlandesi in Finlandia) perché l’identità mitologica non significa eredità culturale: A. Abbasi è meravigliosamente intelligente nel non commettere nessun errore identitario rispettando il sostrato nordico di creature come Hiisi, Troll e Changeling; eppure – a mio piccolo avviso – questa intelligenza registica rappresenta nella chiusa della pellicola un difetto concettuale perché il regista e gli sceneggiatori osservano il mito sotto un punto di vista etico e morale (l’eticità non umana di Vore contrapposta alla moralità umana di Tina): il mito appartiene a una visione mentale parallela alla struttura sociale in cui viviamo e risponde a regole e leggi simili ma non identiche alle nostre; pertanto, se il mito viene umanizzato, il mito muore due volte.

La tematica del ribaltamente etico di un mito è stata similmente affrontata nel romanzo fantascientifico e orrorifico del 1954 I Am Legend (Io sono leggenda) di Richard Matheson e dalla trasposizione cinematografica intitolata L’ultimo uomo della Terra di Ubaldo Ragona: nei finali di entrambe le opere la leggenda prende il posto della realtà perché l’uomo al centro della vicenda narrata, unico sopravvisisuto della specie, si rende conto suo malgrado di essere escluso dalla nuova società post-apocalittica venutasi a creare e le sue azioni sono considerate amorali dalla neonata struttura sociale sebbene coerenti all’ideale di umanità professato dal protagonista.

In Border questo atteggiamento etico riservato al mito rappresenta un’incongruenza perché il regista utilizza la mitologia con una valenza ancestrale assente nelle opere di R. Matheson e U. Ragona. Da questo punto di vista A. Abbasi riceve una critica negativa paradossalmente degna di lode perché simile all’accusa rivolta a H. Ibsen dopo la pubblicazione di Peer Gynt: l’assenza di un confine e di un genere teatrale definito e schematico.

Tina è una contemporanea Peer Gynt; e il film di A. Abbasi diventa una bella fiaba d’etologia prestata a una morale semplice perché nata dall’istinto animale votato alla fedeltà e alla protezione verso ogni creatura vivente: l’uomo deve tornare a sentire un senso di amore panico – nel significato di unione panica con la Natura e non di spavento e atrocità nati dagli inutili schemi imposti dalla Società.

Border è una tassonomia umana universale che necessita di protezione perché fragile ed effimera come la tenera debolezza mitica dei troll – evocata visivamente in un poster della pellicola e in una inquadratura finale che ricorda la poesia Elegia scritta in un cimitero campestre di Thomas Gray – condannati a nascondersi nell’ombra e a essere tramutati in pietra al primo contatto di un raggio di luce. Dopo H. Ibsen e S. Kierkegaard l’aurora boreale omaggia i due nuovi figli poetici della Scandinavia, A. Abbasi e J. A. Lindgvist.