Vista l’uscita del nuovo film di Pupi Avati, il Signor Diavolo, ci sentiamo di approfondire su uno dei suoi film più famosi e sicuramente di un cult della sua filmografia: La casa dalle finestre che ridono.

La trama Un pittore pazzo muore suicida in un paese del ferrarese, dopo avere dipinto un affresco terribile, rappresentante il martirio di San Sebastiano tra due figure ghignanti. Gli interessati allo sviluppo turistico della località, decidono di restaurare l’affresco e fanno venire Stefano, un restauratore. Il giovane viene perseguitato da fatti strani e inquietanti, mentre l’amico Mazza, prima di scomparire con un finto suicidio, gli rivela una storia misteriosa della quale non riesce a dargli i particolari. Prima di scoprire la verità il restauratore si troverà a rischiare la propria vita, perchè qualcuno sta immolando delle vittime alla memoria del pittore scomparso…

Nelle intenzioni iniziali, il film avrebbe dovuto essere ambientato negli Stati Uniti ed intitolarsi “Blood Relations”. Cambiare idea talvolta si rivela un’idea vincente …

In un primo momento pare che gli sceneggiatori volessero ambientare il film oltreoceano, negli Stati Uniti, e non c’è da stupirsi: molti horror e gialli di quel periodo sfruttavano location straniere, da Gli Orrori del castello di Norimberga di Bava a Suspiria di Dario Argento fino ai film di Fulci. Ma Pupi Avati voleva discostarsi da questo andamento. La scelta estera avrebbe nociuto al film. A distanza di più di quarant’anni l’intuizione geniale di Avati sta proprio nella scelta di quei luoghi inospitali della pianura Padana, comuni a uno spettatore italiano, meno per uno straniero.

Avati e il direttore della fotografia trasformano il ferrarese in una piana sterminata, patria del mostruoso. La cittadina sembra infatti essere il vero protagonista della storia, oltre che la cosa migliore di tutto il film. Il tetro prende vita con la luce naturale e sotto alla nebbia si cela un mistero che pare infinito e vasto come la pianura padana.

L’affresco del Martirio di San Sebastiano e tutti i quadri di Buono Legnani che Poppi mostra a Stefano (Lino Capolicchio) sono stati realizzati da Antonio Avati e dal Taglietti, pittore nonché cugino di Michelangelo Antonioni. I soggetti sono tratti da alcuni scatti del fotografo ferrarese Michelangelo Giuliani.

Il protagonista, interpretato da Lino Capolicchio, è costretto a superare pressanti ostacoli temprati dal mistero e da un’atmosfera cupa. A volte aiutato, a volte ostacolato, da alcuni personaggi che sembrano vivere in un microcosmo a sé stante, abitato da giovani pazzi, donne di facili costumi, un sindaco nano, anziane signore silenziose e ubriaconi che sembrano trovare felicità solo nell’alcool. È un eroe che subisce, i fatti gli accadono e lui vi risponde passivamente, quasi come fosse uno spettatore, come noi. Sono proprio i personaggi e le relazioni interpersonali tra di loro ad accentuare l’alone di mistero e quindi a conferire al film la struttura classica dei film gialli.

Se però la struttura è quella di un thriller, la pellicola presenta un armatura di orrori e terrori suadente e cinica, che lo veste di una fotografia glaciale, di primi piani terrificanti, di rumori in sottofondo, di porte che sbattono, di tende spostate dal vento, di un vecchio nastro registratore. Tutti questi elementi acuiscono il senso di inquietudine e mistero che via via aumenta col procedere degli eventi. In pratica una suspense mai forzata e pronta ad esplodere in alcune scene madri, che sfruttando il fascino di  ambientazioni lugubri, raggiungono apici di grande genialità, fino al finale rivelatore. Disarmante e violento.

«Lei non sa che cos’è il silenzio ».

 

Il silenzio è parte fondamentale ed estremamente interessante in questo film perchè amplifica l’angoscia, conficcando lo spettatore in un limbo di corpi e spazi algidi e pressanti. Coadiuvando la fotografia è uno dei segreti della riuscita di questo film. Sono numerosi i momenti di silenzio dove la cittadina pare una città fantasma.

La regia di Pupi Avati cercava nei pochi movimenti di macchina da presa, nella perfezione della fotografia, nel montaggio lineare la forza della propria narrazione. Storia che lascia sempre in tensione, nonostante si tratti di un film lento, senza mai una scena concitata. Si respira un’aria calma e malsana al contempo, ritratto di un’Italia rurale che il direttore della fotografia riprende costruendo dei quadri visivi che tanto fanno pensare ai luoghi delle storie di H.P. Lovecraft.

La sensazione è che il paese sappia qualcosa che non può essere raccontato.

Questi luoghi causano terrore per essere freddi, funerei, oltre che a un perenne senso di straniamento dovuto anche alla colonna sonora, a volte più statica a volte più portatrice di suspense. Un film che sembra non avere difetti. Anche del cast non si può parlare male, un casting azzeccatissimo, perfettamente calato nella parte. Basti pensare che Lino Capolicchio non sapeva guidare né automobili né motociclette. Avati risolse il problema trainando con alcune corde il side-car per le inquadrature in primo piano ed utilizzando una controfigura per le inquadrature a campo lungo.

Stefano (Lino Capolicchio) vaga nella cittadina e spesso passa il tempo in chiesa a restaurare l’affresco o a casa. Bene, in questa pellicola, come in altre del regista bolognese, la casa non è mai rifugio ma è il primo mostro da combattere. Il posto dove gli orrori e terrori prendono forma in chiave puramente gotica. La chiesa che dovrebbe essere la casa di Dio, cela in realtà i segreti di un prete che tanto è cordiale quanto misterioso. È il luogo sacro dal quale ha origine il tema della colonna sonora. Un organo pregnante e ossessivo, che aggiunge angoscia alle immagini di Avati e traina lo spettatore per 110 minuti.

Cesare Bastelli, l’aiuto regista di Pupi Avati, racconta che il prete (vero) di San Giovanni in Triario accettò di mettere a disposizione la chiesa per le riprese, ma quando successivamente vide il film, non gli piacque affatto.

La casa dalle finestre che ridono è un film di mistero, dove gli scheletri del passato vengono esposti e si diffondono come un veleno nel quiete presente, in un atmosfera ricca di colpi di scena. Un finale a sorpresa, colpo di genio del regista, che si ispirò ad un fatto di cronaca realmente accaduto quando era bambino. Un comparto tecnico preciso e coerente.

È dunque un film horror di provincia, come nei romanzi di King, una incarnazione del gotico che scava nei segreti di una comunità chiusa in sé stessa per creare una storia nebbiosa in cui il mistero si annida in ogni sguardo, in ogni parola, in ogni dettaglio, in ogni scelta messa in campo da Pupi Avati. Si tratta del punto di svolta nella carriera del regista, il suo cult e il suo capolavoro.