Il 19 gennaio 1809 nasceva Edgar Allan Poe. Quel bimbo dai capelli scuri avrebbe cambiato per sempre il mondo del weird tale (il fantastico macabro) e valorizzato come non mai il racconto breve. Possiamo immaginarlo, intento a giochicchiare nella culla, accudito da mamma Elizabeth – attrice di talento, dotata di fascino ed eleganza – che morì prematuramente. Anche il padre, per Poe, fu una presenza di cui potè a stento ricordare.

Il futuro maestro dell’orrore psicologico, in tenera età, fu adottato di un uomo benestante: Frances Allan. Cominciò a studiare e viaggiare, conducendo una vita sempre più disordinata. Tra donne, alcol e lavori precari cercò di colmare il vuoto dell’esistenza, viaggiando tra Boston, Richmond, Philadelphia e New York. E infine, nel 1849, tirò le cuoia in un alone di mistero: un evento degno dei suoi racconti del terrore.

Tafofobia

Nei suoi racconti, Poe non rivela mai la presenza del soprannaturale. Le spiegazioni attribuibili agli accadimenti bizzarri che tratta rientrano nel confine del naturale. L’autore non parla mai di fantasmi, ma di redivivi: persone sepolte vive, che tornano a camminare tra i vivi dopo essere state erroneamente giudicate come decedute.

T.M. Montgomery, un impresario di pompe funebri americano, stimò che circa il 2% delle persone riesumate, nel 1896, fossero “vittime” di uno stato di morte apparente. Si trattava di un problema ancora abbastanza diffuso nel XIX secolo, dal quale sarebbe scaturita la tafofobia: la paura di essere sepolti vivi. Tale fobia colpisce perlopiù individui anziani, rimasti colpiti dalla lettura di storie ispirate al fenomeno. Edgar Allan Poe affrontò l’argomento in La sepoltura prematura, La caduta della casa degli Usher e Il barile di Amontillado.

Il complesso rapporto con la madre

Secondo la studiosa Marie Bonaparte, Poe rincorse la figura della madre (Elizabeth) per tutta la vita, rievocandola in personaggi come Berenice e Lady Madeline Usher. Di seguito, le ultime strofe della poesia To My Mother:

My mother– my own mother, who died early,
Was but the mother of myself; but you
Are mother to the one I loved so dearly,
And thus are dearer than the mother I knew
By that infinity with which my wife
Was dearer to my soul than its soul-life.

Bisogna tuttavia fare una precisazione: in realtà la poesia non è dedicata alla madre biologica di Poe, che morì quando aveva tre anni, né alla mamma adottiva, la signora Allan. Pare che il poema fosse indirizzato alla suocera: Maria Clemm, la madre della sua prima moglie (e cugina) Virginia. in altre parole, lo scrittore apprezzava la donna che lo aveva portato al mondo molto meno della suocera, perché quest’ultima si comportò come una vera madre, oltre ad aver dato alla luce la donna che sarebbe diventata la sua prima moglie.

Edgar Allan Poe menziona la sua madre biologica solo per evidenziare quanto sia più vicino a qualcun altro. Si tratta di una scelta innovativa e controcorrente.

Il terrore atavico di Edgar Allan Poe

Poe non credeva nel sovrannaturale: i suoi mostri erano il frutto di una psicologia morbosa. Passato, morte, sepoltura, tortura, traumi affettivi e rimorso erano alcuni tra i temi favoriti dallo scrittore di Boston. La sua poetica riusciva a trasmettere un terrore universale, attraverso immagini eterne della paura, simboli della cupezza e del tormento.

Un corvo che spacca il cuore, rintocchi di campane provocati da demoni, cripte all’ombra della luna e guglie innalzate dalla Morte… la letteratura di Edgar Allan Poe resta impressa nella mente del lettore, come un misterioso gatto nero che lascia presagire strani e terribili eventi. Superstizioni e ossessioni sfidano la razionalità. Talvolta conducono al collasso emotivo o all’esaurimento nervoso, ma raggiungono il parossismo in atti che rasentano la follia, come accade nel climax de Il cuore rivelatore.

Lo stile

Poe scriveva racconti la cui base era fondamentalmente gotica. Il suo merito, però, era quello di creare una commistione di terrore e mistero, con un tocco di “tragico romanticismo“. Le strutture delle storie erano elaborate in modo da generare suspense nel lettore, impreziosite da un linguaggio spesso simbolico. La scelta delle parole, nella letteratura dello scrittore di Boston, ha spesso un significato singolare e non lasciato al caso. Pensiamo, ad esempio, all’incipit de La maschera della Morte Rossa.

La maschera della Morte Rossa

Da gran tempo la Morte Rossa devastava la contrada. Mai s’era avuta pestilenza tanto letale, di tanta atrocità. Il sangue era il suo Avatar e il suo sigillo, il color rosso e l’orrore del sangue. Acri dolori, poi subito vertigine, e sangue che sgorgava dai pori, e il mortale disfacimento. Le macchie scarlatte sul corpo, specialmente sul volto della vittima, erano il letale contrassegno che la escludevano dall’aiuto e dalla sollecitudine dei suoi simili. Insorgeva il morbo, si diffondeva e concludeva nell’arco di mezz’ora.

Si può subito notare che il tempo della storia è indefinito, come nelle fiabe. La scelta di termini desueti, come Avatar (termine sacro di origine sanscrita: “incarnazione”, “manifestazione”) conferisce una vena di sacralità e gravità al racconto. I continui riferimenti al sangue invocano un’atmosfera drammatica. Porre l’accento sull’alienazione che subiscono le vittime del morbo, non fa che deteriorare l’aria già insana del racconto e lascia presagire quali fatti atroci possano accadere continuando con la lettura. La velocità con cui la malattia si diffonde sembra un promemoria dell’indifferente spietatezza con cui essa approccia e abbandona gli uomini: una “natura matrigna”, per dirla con Leopardi.

Ma questo è solo l’inizio. C’è ancora ragione di credere che, con lo sviluppo, la storia possa cambiare rotta, per approdare su un baia tranquilla, priva di crudeltà o malattie. Edgar Allan Poe, al contrario, ci pone sulla soglia di un baratro, dal quale inevitabilmente saremo risucchiati. Non importa il finale del racconto: è nello svolgimento, che attraverso allegorie e metafore l’autore ci offre uno scorcio su un paesaggio apparentemente idilliaco, silenziosamente devastato e deturpato dalla peste.

La serietà con cui tratta i propri temi non lascia scampo: siamo costretti a credergli, a diventare folli con i suoi personaggi. E alla fine, ci chiediamo se anche in noi, nel profondo, non sia insita una piccola percentuale di follia o perversione.

Edgar Allan Poe e Roger Corman

Il regista Roger Corman cercò di trasporre sul grande schermo alcune tematiche care a Poe, con relativi riferimenti a celebri personaggi ed eventi descritti dall’autore di Boston. Tra gli anni sessanta e settanta, Corman realizzò sette pellicole, con Richard Matheson alla sceneggiatura e Vincent Price come protagonista. Cercò di trasmettere lo stile e le atmosfere poeiane attraverso la messa in scena di vari eventi (particolari situazioni familiari, ricerche occulte…), il cui esito spiazzante dava il via ad una serie di orrori.

Le ambientazioni, spesso indefinite, sono puramente gotiche. Corman, in molti casi, prese le distanze dalle opere originali di Poe, usandole soltanto come spunto creativo. Non a caso, alcune delle pellicole si presentano come commedie; ne è un esempio The Raven (1945). Si tratta però di humor nero, che lo stesso Edgar Allan Poe, talvolta, esprimeva nei suoi racconti – seppur in modo più contenuto.

Edgar Allan Poe fu un autore singolare e un uomo complesso, degno di essere psicanalizzato, come molti dei personaggi da lui inventati. La traccia che ha lasciato nel mondo della letteratura è indelebile e sarà per sempre tale. Pensare a come sarebbe l’horror letterario o cinematografico senza la sua influenza risulta quasi sconfortante.

É colui che ha dato una forma e una complessità psicologica alla paura espressa con le parole, il primo a renderla “compiuta”. In vita fu sfortunato, spesso triste e malinconico, ma come scrisse lui stesso:

“Non soffrire significherebbe non essere stato mai felice”.