Compie 31 anni oggi Edward mani di forbice: la pellicola cult del regista statunitense Tim Burton. Una favola dark che ha coronato lo stile unico di un autore all’alba di una delle carriere più emblematiche del cinema contemporaneo.

La storia

Peggy Boggs, una madre di famiglia dedita al suo nuovo lavoro come rappresentate Avon, conduce una vita a tinte pastello: una famiglia perfetta, una casa in un bel quartiere residenziale; un mondo che sembra creato ad immagine e somiglianza della parola ordinario.

Ma qualcosa di straordinario sta per arrivare nella vita di Peggy, della sua famiglia e nello zuccheroso quartiere: la donna trova, in un vecchio castello sulle colline circostanti, un ragazzo particolare; è solo, perduto, e al posto delle mani ha delle elaborate forbici. È quasi impossibile comunicare con lui, ma Peggy decide – in un atto che è amore tanto quanto curiosità – di portarlo a casa con sé.

Così le casette color pastello della cittadina iniziano a tingersi di toni più inusuali, più cupi, mentre la presenza di Edward, il ragazzo dalle mani di forbice – dopo un iniziale curiosità per il “nuovo” – sconvolge gli animi preconfezionati e inchiodati alla loro ordinarietà.

Chi inizialmente lo aveva accolto non sa più se è in grado di tener fede al suo gesto di amore e di inclusione.

Una favola dark – l’amore e l’odio per lo straordinario

La storia di Edward mani di forbice inizia con “c’era una volta”, e non lo fa a caso. Perché questa storia promette così già dall’incipit di essere una favola. E in effetti lo è. Lo stile visivo zuccheroso e quello fiabesco e incantato del mondo di Edward sono le premesse per l’ambientazione perfetta per una pellicola che racconta della collisione di due mondi. Questo racconto avviene con una capacità narrativa semplice e impattante, che arriva a noi prendendo la strada più dritta e arricchendola di elementi visivi e momenti che mai ci saremmo aspettati di vedere.

La favola di Edward è una storia ricca di tenerezza e dolore.

La sceneggiatura, affidata a Caroline Thompson, ripercorre le tappe del reietto, del non voluto, del diverso che – per volontà degli “accettati” – tenta di essere inserito in una comunità civile precostituita. 

Nessuno si chiede se questa sia la reale volontà di Edward, semplicemente si pensa che debba essere salvato. Perché solo. Perché diverso. Perché incompleto.

E allora viene trascinato via dalla sua realtà da un salvatore (lampanti le analogie con i classici della narrativa in cui  l’uomo cerca di educare il mostro, come per esempio in Frankenstein), che si è autoproclamato tale.

Ma lo sviluppo del rapporto tra Edward e i cittadini – e viceversa – segue una arco identico: il ragazzo è inizialmente affascinato dal mondo nuovo in cui è catapultato, un mondo a colori fatto di persone che vogliono dedicarsi a lui, amarlo e studiarlo perché egli rappresenta lo straordinario. E questo non può che renderlo felice, inizialmente. 

Lo stesso vale per i cittadini: incastrati nel loro mondo patinato in un circolare movimento iterativo delle loro giornate, trovano in Edward una via di fuga.

Chi perché cerca in lui l’amore che ancora ha da dare ma che sembra mancare all’interno del suo nucleo familiare, come in Peggy. Chi perché cerca in lui un’esperienza sessuale al di fuori dell’ordinario perché annoiata. Ma soprattutto Edward è per loro una via d’uscita dalla routine e allo stesso tempo una conferma del fatto che loro sono i “giusti” e che lui, il diverso, è un elemento da osservare ma non da amalgamare.

Naturalmente esiste anche chi vede sin da subito nella figura di Edward un capro espiatorio per il Male che imperversa (tra gli umani, non tra i mostri).
La convivenza di queste due realtà, però, sembra procedere.

Ma non per molto.

Perché i due mondi, una volta superato il momento di luce in questa convivenza, generato dalla curiosità e dalla novità, sono destinati all’incompatibilità. La domanda che ci resta da porci è: la fine di questa relazione è attuabile senza la distruzione di una delle due parti? 

Ogni viaggio che si rispetti, in questo caso ogni favola, non può però non portare cambiamenti: lo straordinario nella sua unicità, qui compie una piccola rivoluzione per qualcuno, e lo fa grazie all’amore; che in Edward resta sempre più presente dell’odio.

E questo apre una possibilità, per chi pronto ad accoglierlo.

Tim è Edward: una sola anima

È evidente infatti come il regista identifichi nella periferia di finzione della pellicola la natia Burbank (elemento ricorrente nella filmografia del regista), dalla quale egli stesso è fuggito in gioventù perché incapace di integrarsi. Perché proveniente da un altro mondo – in questo caso quello della sua interiorità – perché dotato di una creatività al di fuori dell’ordinario che l’ha sempre fatto sentire un diverso.

Il dolce amaro della pellicola, capace di donare momenti di assoluta tenerezza e di commuovere con una delicatezza straordinaria, deriva proprio dal fatto che si tratta di un racconto di finzione tanto quanto della confessione di un’anima: quella del regista. Tim Burton attraverso Edward racconta la parabola della sua nascita creativa, diventando una guida per tutti noi che – almeno una volta nella vita – ci siamo sentiti incapaci di comunicare.

La nascita ufficiale dello stile dark e gotico del regista arriva con questa pellicola indimenticabile, che ha incantato e continuerà a farlo perché pura, dolce, proveniente direttamente dalla volontà di chi l’ha creata di voler esprimere il proprio sentire. La cura per i costumi e le scenografie e le interpretazioni eccezionali rendono questo film un gioiello inestimabile che continuerà a far sognare e a commuovere.
E sicuramente anche a farci sentire meno soli nella nostra unicità.

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