Killers of the Flower Moon è l’ennesimo grande film dell’instancabile Martin Scorsese, che a 80 anni realizza un’opera imponente di ben 206 minuti – solo tre minuti in meno di The Irishman – una durata necessaria quando si narra una storia di tale portata.

Scorsese ci riporta all’inizio del XX secolo, quando la scoperta del petrolio trasformò l’esistenza degli Osage che diventarono da un giorno all’altro immensamente ricchi. L’improvviso benessere di questi nativi americani attirò l’interesse di chi iniziò a manipolare, estorcere e sottrarre con l’inganno i beni degli Osage fino agli omicidi.

Il libro di David Grann del 2017 Killers of the Flower Moon: The Osage Murders and the Birth of the FBI (pubblicato in Italia con il titolo Gli assassini della terra rossa), è una storia americana di crimini che esplora sia il passato che il presente della nazione. Al centro del libro c’è la Nazione Osage, la tribù di nativi americani costretta a spostarsi verso ovest dall’Ohio e dalle valli del Mississippi, attraverso il Missouri e il Kansas, per giungere infine, per ordine del governo americano, nel cosiddetto territorio indiano dell’ Oklahoma, dove rimase fino alla fine del 1800.

Il film ha come protagonista Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio) che appena tornato dalla Prima Guerra Mondiale raggiunge il ranch di suo zio. Lo zio è William “Bill” Hale (Robert De Niro), ma preferisce essere chiamato “King” nella città di Fairfax. Detiene un grande potere e solo apparentemente sembra essere un sostenitore del popolo Osage. Parla la loro lingua e sembra rispettarli. 

Nel cast del film figurano anche Lily Gladstone, Jesse Plemons, John Lithgow, Brendan Fraser e altri volti noti. Questo film segna la sesta collaborazione tra Martin Scorsese e DiCaprio e la decima tra Scorsese e De Niro, mentre è la seconda volta in tutta la loro carriera che recitano insieme, 30 anni dopo il film “Voglia di ricominciare” (This Boy’s Life, 1993).

In una scena, e nel trailer, sentiamo la domanda: “Riesci a trovare i lupi in questa immagine?” Domanda retorica, ovviamente. La storia di Killers of the Flower Moon è soprattutto la storia del peccato originale degli Stati Uniti d’America, di come hanno sradicato il popolo di nativi che viveva lì prima di loro. Questo film è principalmente un dramma storico di una tragedia che riverbera ancora oggi, un’analisi di un caso criminale che ha trasformato il sistema di giustizia degli Stati Uniti. Il conflitto culturale è un tema ricorrente nella filmografia di Scorsese ed è ovviamente presente anche in Killers of the Flower Moon, ma non sono i personaggi a essere il fulcro di questa storia, bensì le loro azioni e la loro crudeltà. 

Nel corso della sua carriera, Martin Scorsese ha spesso utilizzato i gangster come mezzo per parlare dell’America. Film come Quei bravi ragazzi o Casinò sono una sorta di simulacro della cupidigia americana, dei suoi eccessi maniacali e della sua storia di violenza. Con The Irishman (2019) sembrava che Scorsese stesse chiudendo un cerchio, con il ritratto di un gangster alla fine della sua carriera. Ma con quest’ultimo film è semplicemente tornato indietro nel tempo per esplorare un’altra brutalità organizzata del passato: gli omicidi degli Osage negli anni ’20 in Oklahoma. Scorsese aggiunge quindi un altro tassello alla sua grande composizione della crudeltà di una nazione.

Girato principalmente nella riserva dell’Oklahoma, il film si apre e si chiude con cerimonie Osage, una per commemorare la morte e l’altra per celebrare la vita. Scorsese trasforma Killers of the Flower Moon nel tipo di storia che lui può ancora raccontare meglio di chiunque altro: una storia di avidità e corruzione, di famiglia e violenza, di morte e di rinascita. Ma nell’adattare la storia, Scorsese e lo sceneggiatore Eric Roth hanno ampliato la portata del racconto, spingendo ulteriormente indietro la timeline. Questo per concentarsi anche sulla relazione d’amore fra Mollie Brown (Lily Gladstone), della ricca famiglia Osage, e Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio), che arriva in città per lavorare per suo zio William “Bill” Hale (Robert De Niro). Sono gli anni in cui le leggi del Far West cedono il passo alla regolamentazione di una moderna forza di polizia, e il film sorprende per la lucidità con cui sceglie di spostare l’attenzione su questo matrimonio che cerca di restare in piedi e resistere alle tragedie.

All’apparenza può sembrare un film diverso da quelli a cui ci ha abituati Martin Scorsese. Riesce invece a mantenere i suoi tratti distintivi, esplorando con la stessa intensità tematiche di potere, corruzione e conflitti morali, che hanno da sempre contraddistinto i suoi lavori. Trasporta il pubblico in un’epoca passata ma lo fa con una visione contemporanea e una maestria che rafforza la sua posizione di grande maestro del cinema moderno. Killers of the Flower Moon ha un tono decisamente più solenne per quanto riguarda la messa in scena della violenza (più simile quindi a Silence); si percepisce uno sguardo più rispettoso per quanto riguarda l’orrore duraturo del colonialismo.

Ernest non sembra avere un carattere ben definito, qui ci troviamo davanti a qualcosa di inusuale nel cinema di Scorsese; è un protagonista malleabile e smarrito, la sua personalità prende forma soltanto dopo avvenimenti che lo mettono alla prova. DiCaprio è indubbiamente un ottimo attore, ma c’è anche da ammettere che ha bisogno di spazio e libertà per esprimersi al meglio. De Niro, al contrario, si diverte molto nel ruolo del tracotante e affabile Hale, un ritorno alla minaccia silenziosa di alcuni dei suoi personaggi più celebri. Ernest invece sembra dover seguire le meccaniche del racconto in un processo di disumanizzazione che lo rende allo stesso tempo un personaggio sempre più scorsesiano.

Verrebbe da chiedersi come questa storia sarebbe stata nelle mani di un regista nativo americano. Sicuramente non avrebbe incentrato così tanto della durata del film su Ernest e Bill. Il film si sofferma a sufficienza su Mollie ma si ha spesso la sensazione che tutti gli altri siano soltanto di contorno, ed è un peccato se si pensa alla durata complessiva. La performance di Gladstone nei panni di Mollie fa la differenza, una donna forte e sensibile, che trasmette tutto il dolore di una donna innamorata ma costantemente in lutto.

La parte finale si collega in maniera intelligente all’audiovisivo contemporaneo, senza risultare in alcun modo pretenzioso, ma anzi restituendo ancora giustizia e rispetto alle vittime, e fortificandone il ricordo.

Classificazione: 4 su 5.

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