Prodotto nel 1977, Martin (e non il  Wampyr, rimontato da Dario Argento per il mercato europeo con musiche dei Goblin) è uno dei film più apprezzati del compianto George A. Romero. Una pellicola che dietro la rassicurante patina della semplicità racchiude un discorso politico e sociale tutt’altro che banale, testimoniando una volta di più la sensibilità artistica di un autore che ci manca.

TRAMA

Martin è un giovane che uccide donne dopo averle narcotizzate, lasciandole sanguinare mentre simula un rapporto intimo con loro. Un giorno va a vivere da un anziano cugino, un uomo superstizioso e dalla rigida formazione religiosa che si propone di curarlo da ciò che crede essere una forma di vampirismo. Martin inizia così ad interagire con le svariate anime che compongono il sobborgo industriale decadente che è la sua nuova casa.

VAMPIRI MODERNI

Non è chiaro se Martin sia un vampiro, anzi è improbabile. Il vampirismo romeriano di Martin ribalta le prospettive e ci propone una creatura che uccide per solitudine e senso di inadeguatezza. Dimentichiamoci castelli, mantelli ed eleganti figure che si stagliano nella notte. Martin sembra un ragazzo normale, timido, impacciato. Si muove indifferente in una società che quasi non lo vede, se non quando ne ha bisogno.

Fa le consegne per un negozio Martin e diventa il tuttofare oggetto del desiderio di casalinghe sole con mariti lontani e distratti che non si vedono mai.

Martin è il reietto che il cugino tratta come il male assoluto, e di male si veste per sfogare istinti che non riesce a gestire, accettando di esserlo un vampiro e anzi, con numerosi flashback visionari o forse sogni notturni, il giovane ci trasporta con lui in una dimensione gotica (con fotografia in bianco e nero) nella quale si muove come un Dracula classico.

LA SOLITUDINE DEI DIMENTICATI

Martin è solo. Uccide perché crede di non riuscire ad amare. Cerca conforto nel dialogo telefonico con uno speaker della radio che sembra burlarsene ma Martin ha bisogno di parlare, sfogarsi, dare un senso a ciò che è. Si prende gioco del bigotto cugino mascherandosi da Dracula con tanto di denti finiti e trova conforto e comprensione solo nella nipote del cugino, Cristina, l’unica che sembra capire che Martin ha bisogno più di aiuto psichiatrico che di esorcismi.

AMERICA ALLO SPECCHIO

E’ proprio nella cittadina di Braddock (Pennsylvania) che troviamo il riflesso del protagonista. I sobborghi desolati di una città fantasma e in continuo spopolamento, con le sue strade sporche, i suoi abitanti chiusi in case moderne che sembrano illudersi di poter sfuggire ad un degrado dilagante. L’America di Martin è il paese che Romero ha sempre raccontato nel suo cinema, una paese che perde pezzi ed identità, che vede il benessere promesso dal boom economico sfuggirgli di mano e che trova sfogo nella lotta interna, una lotta tra poveri.

La Braddock sporca e semi deserta è la città dormitorio dei suoi morti viventi, che ora si chiamano cittadini, hanno una bella auto e lo steccato bianco a limitare il giardino. Martin arriva in questo contesto conoscendo poco del mondo, vittima e carnefice al contempo. Figlio non voluto di una generazione che non ha mantenuto le promesse, trasformando il sogno americano in un vuoto esistenziale.

Ed è proprio in maniera beffarda e tipicamente romeriana che il nostro protagonista troverà la sua fine, quando a un passo dall’amore (e dalla salvezza?) sarà risospinto in un vortice di solitudine e sospetto.

CHI E’ MARTIN ?

è un serial killer, uno spirito inquieto che vive di istinti,

è un ragazzo che vive una solitudine che non sa spiegare,

è l’oggetto dei desideri di adulti che non vogliono accettare le loro vite,

è l’estraneo verso cui far confluire i sospetti,

è la vergogna di una famiglia che non lo conosce,

è l’America di fine ’70, confusa da guerre incomprese e un benessere già sfuggito,

è il carnefice,

è la vittima innocente dell’unico delitto di cui non è colpevole,

Martin siamo noi, quando non riusciamo a sentirci del tutto parte di ciò che ci circonda.

Classificazione: 3 su 5.