In occasione del compleanno dell’enfant terrible del cinema, Monsieur Lars Von Trier, abbiamo deciso di rispolverare una grande opera della sua filmografia e completare, così, la trilogia della depressione.

Trama

Claire (Charlotte Gainsbourg) e Justine (Kirsten Dunst) sono due sorelle dai caratteri opposti. Claire è calma, pacata, e razionale mentre Justine è una ribelle, insoddisfatta e infelice. Quando la Terra e il pianeta Melancholia si incontreranno in una Danza di morte, la diversità di temperamento sarà l’unico discrimine all’interno di una tragedia annunciata.

Recensione

Melancholia è uscito nelle sale italiane il 21 ottobre 2011. Presentato in concorso al 64esimo Festival di Cannes, è valso a Kirsten Dunst la Palmarès come miglior attrice protagonista. Contemporaneamente, grazie a una decisamente controversa uscita durante la conferenza stampa, Lars Von Trier si è aggiudicato il ban dal Festival e l’appellativo di “Persona non grata. Nonostante queste circostanze collaterali, è innegabile che Melancholia sia un film entrato nella storia del cinema. Un’analisi della depressione, un’opera strettamente personale che, volenti o no, ha mostrato tutte le capacità artistiche di Von Trier.

Tecnicismi e dintorni

Prima di addentrarci nell’analisi approfondita di questa opera maestosa, è necessario analizzare e contestualizzare la tecnica di questo Melancholia. Successivo ad Antichrist, è forse il taglio più netto attuato dal regista rispetto al Dogma95. Strutturato in tre atti, Prologo – Capitolo 1: Justine – Capitolo 2: Claire, riprende la struttura della precedente pellicola (Antichrist ndr) regalandoci un’altra prima sequenza visivamente e acusticamente indimenticabile. Sulle note di Tristan und Isolde di Wagner, vediamo scorrere sedici sequenze a ralenti, che più che scene sono veri e propri quadri. Scopriremo solo a opera finita il vero significato di quella sequenza.

Una delle 16 sequenze del prologo di Melancholia: Justine scappa nel bosco

E’ in questa prima sequenza che vediamo in modo massiccio l’allontanamento dal Dogma95. Sebbene il movimento continui ad essere presente, più in concetto che non in concreto, Melancholia si discosta definitivamente da quelli che erano i dettami strettamente tecnici . Come “confesserà” Von Trier, tramite La casa di Jack, con l’avanzare degli omicidi (leggi film) Jack (Lars) si è fatto più incauto e meno ossessionato dal controllo. Tuttavia, come sostenuto anche dalla Dott.ssa Lucia Faienza (Università dell’Aquila) all’interno del suo saggio Il doppio volto della minaccia: un approccio analitico a Melancholia di Lars von Trier, il collegamento con il Dogma permane tramite la ricerca della verità nelle storie dei personaggi. Essi non sono perfetti, non sono edulcorati o filtrati tramite la macchina da presa, sono quello che sono, con le loro brutture e fragilità. Questa ricerca della realtà, si evidenzia, registicamente parlando, attraverso l’uso della camera a spalla. Nelle scene del matrimonio, infatti, questa tecnica viene ampiamente utilizzata per ricreare quel senso di verosimiglianza, quasi un essere non-personaggio di Justine.

Justine ripresa con la tecnica del tableau vivant
Justine ripresa durante la cerimonia, con tecnica della telecamera a spalla

Tuttavia, la costruzione del personaggio della sposa (Dunst) non avviene solo attraverso questa prima tipologia di riprese, ma anche tramite l’uso della tecnica del tableau vivant. La dualità di queste due modalità di rappresentazione della figura di Justine, ne caratterizzano le ambiguità e le emozioni. Da un lato una staticità, dovuta alla sua sensazione di incatenamento, dall’altra la realtà dovuta ai sentimenti che prova e al desiderio di ribellione che infuoca dentro di lei.

La vacuità dei rapporti familiari e la perdita dei punti di riferimento

L’ambiguità dei sentimenti di Justine è dettata anche e forse soprattutto dalla vacuità dei rapporti familiari. Con un chiaro riferimento a Festen- Festa in famiglia del 1998, primo film del movimento per la regia di  Thomas Vinterberg, Von Trier delinea l’inconsistenza percepita da Justine rispetto alla sua famiglia. La madre Gaby (Charlotte Rampling) è fredda, algida, disgustata dal marito e dalla scelta della figlia di sposarsi. Il padre (John Vincent Hurt) è inesistente, sebbene apparentemente legato a Justine, non rimane con lei e, addirittura, la chiama Betty, come le ragazze di cui si è circondato. John (Kiefer Sutherland), il marito di Claire, è avaro fino allo sfinimento. Come tutti gli uomini ricchi è convinto che anche la felicità possa essere acquistata, anche quella di Justine. Michael (Alexander Skarsgård) è forse l’unica “vittima” del comportamento della moglie. Inconsistente nel carattere, è usato da Justine come ricerca di una pseudo-serenità, che tuttavia non le è possibile raggiungere. Unica ancora, in questo perpetuo naufragare della protagonista è la sorella Claire (Gainsbourg) che cercherà di sostenerla e capirne il malessere profondo, non senza difficoltà.

Lo specchio e femminilità

In questo gioco di rapporti familiari, preponderante è il fenomeno dello specchio che porta alla trasposizione di Justine attraverso la madre e la sorella. Di impeti diametralmente opposti, la sposa sta nel mezzo tra le due. Justine è contemporaneamente simile e contraria a sua madre. Sebbene non sopporti la madre e la sua insofferenza verso il matrimonio, non riesce ad ignorarne la presenza ed, anzi, alla fine avvererà la “profezia” di quest’ultima. Lo specchio di questo rapporto si evince, particolarmente, nella scena della vasca. Vediamo madre e figlia che, per motivi apparentemente diversi ma pericolosamente vicini, si rifiutano di prendere parte al ricevimento rifugiandosi all’interno di un bagno caldo. La madre è la parte disillusa di Justine da cui, per quanto cerchi di allontanarsi è causa del suo essere. Al angolo opposto c’è, invece la figura di Claire. Pratica, razionale, semplice in un certo senso, è lo specchio di illusioni che fanno parte di Justine, ma in cui non vuole perdersi. La linearità con cui Claire affronta la vita è totalmente irrazionale e irragionevole per la sorella che, grazie al suo stato depressivo, ha la capacità di vedere la realtà delle cose. In questo senso, la melanconia di cui soffre la sposa è rappresentata in modo puntuale, come solo chi ne ha sofferto può capire. La cieca fiducia nel mondo, la fredda (ir)razionalità è un velo da squarciare, che solo chi ha modo di soffrire nel profondo può distruggere.

Scena della vasca

La melancholia di Tristano e Justine

Durante tutta la durata dell’opera, veniamo accompagnati dalla splendida sinfonia di Wagner Tristane und Isolde. Ci rendiamo ben presto conto, tuttavia, che le tematiche affrontate in Melancholia, ben poco hanno a che fare con la leggenda di Tristano e Isotta. E’, infatti, la filosofia che ha ispirato l’opera di Wagner ad essere il fulcro centrale della pellicola. In una lettera che Wagner invia a Franz Liszt nel dicembre 1854, scopriamo come l’incontro del musicista con Schopenhauer sia stato folgorante: “[l’incontro con S. mi ha rivelato un – nrd] accorato e sincero desiderio di morte, la piena incoscienza, la totale inesistenza, la scomparsa di tutti i sogni, unica e definitiva redenzione”. Tuttavia, come evidenziato dal critico Petrucci all’interno del Manuale wagneriano, questo avrebbe portato ad una scelta differente per i personaggi di Tristano ed Isotta, i quali avrebbero dominato la loro passione. Schopenhauer, infatti, spiega che per raggiungere la serenità si debba accettare la sofferenza e rassegnarsi all’impossibilità del desiderio. Ma il Tristano dell’opera wagneriana non si rassegna a tale impossibilità, ma anzi trova nella morte la naturale conseguenza e liberazione da questa passione impossibile. Justine, conscia dell’impossibilità di provare un desiderio o un qualsiasi sentimento di felicità, chiusa all’interno della sua bolla di melanconia, accetta la morte con serenità, come definitiva liberazione dalla sua condizione di sofferenza e, in questo, si differenzia da Claire.

Un’Ophelia cosciente e desiderosa di morire

Questo aspetto si riflette anche nella rappresentazione filmica del quadro di John Everett Millais, Ophelia. Diventato iconico per la bellezza dell’inquadratura e l’uso della tecnica del tableau vivant, Kirsten Dunst mette in scena un’Ophelia desiderosa di morire. Nell’opera di Shakespeare, Ophelia sta affogando, ma nel suo stato di follia e dolore, continua a cantare mentre il suo vestito gonfio d’aria la mantiene a galla. Tuttavia, alla fine, “i suoi abiti, pesanti del loro liquore, trassero la povera disgraziata dal suo canto melodioso verso una morte fangosa”. Nel quadro di Millais, Ophelia ha gli occhi chiusi, le mani al cielo, accetta il suo destino, ma in una pseudo incoscienza e stato di beatitudine. Justine è, invece, vigile con gli occhi sbarrati e le mani giunte come un cadavere. Accoglie l’arrivo della fine con piena consapevolezza e desiderio, auspicando la definitiva liberazione dal suo profondo soffrire.

John Everett Millais, Ophelia 1851-1852
Lars Von Trier, Justine 2011

La melanconia come sentimento universale

Al principio del film ne scopriamo il tristo finale. Due pianeti si stanno scontrando e non c’è niente che gli esseri umani possano fare per sottrarsi a questo destino. La messa in scena dell’epilogo, nei primi minuti di pellicola, ha come obiettivo deviare l’attenzione dalla Danza di morte tra la Terra e Melancholia e focalizzarsi sulle reazioni delle protagoniste. Il dado è tratto, il destino è segnato. L’unica cosa che è possibile comandare sono le reazioni. Nella seconda parte, quella intitolata Claire, vediamo le due sorelle confrontarsi con l’arrivo della catastrofe annunciata. E se, da una parte, Claire è incapace di accettare l’arrivo della fine, la depressione di cui è affetta Justine è la sua salvezza. L’arrivo del pianeta Melancholia è la risoluzione finale, la fine della sofferenza che culmina in una grotta, simbolo ancestrale della protezione e del ventre materno. Il pianeta Melancholia incombe sulla Terra e quando la incontra, la ingloba. Un sottile, ma evidente, parallelismo con la depressione e l’essere umano. In una Danza di Morte (alias la vita), la persona e la depressione si avvicinano e si allontanano, fino a quando la melancolia prende il sopravvento.

Solo grazie alla sofferenza c’è arte

Arriviamo, infine, ai riferimenti che l’enfant terrible lascia all’interno della sua opera. Non parleremo, tuttavia, dei diversi quadri presenti (e.g. Cacciatori nella neve di Pieter Bruegel il Vecchio o The Woodman’s Daughter di John Everett Millais), ma di un’altra opera filmica che viene citata solo di sfuggita. Sto parlando di Melancholia di Lav Diaz, un’epopea filippina di 450 minuti sull’esistenza umana. Interamente in bianco e nero, appare tramite un fermo immagine sulle ricerche di Claire, in merito all’arrivo di Melancholia. Come detto da Merighetti sull’opera: “Julian [il protagonista di Melancholia di Diaz] scrive un libro chiamato Melancholia per dimostrare che solo grazie alla sofferenza c’è arte, […] l’arte alimenta o si identifica con la melanconia di cui parlava Freud, dove l’elaborazione del lutto, per la perdita di persona amata o di un ideale porta all’autopunizione e alla perdita di contatto con la realtà”. Il chiaro e netto richiamo all’opera di Lars, non sta solo nella melanconia come perdita di contatto con la realtà (come avviene per Justine), ma anche in una sua personale scelta di utilizzare il cinema come mezzo terapeutico contro la depressione. L’arte di Von Trier evidentemente si alimenta o si identifica con la sua stessa depressione.

Il ritorno alla grotta, unico luogo per “sfuggire” alla melanconia

Conclusioni

Melancholia è un film complesso, ingarbugliato e carico di significati. Sono tanti i punti che andrebbero ancora trattati per descriverlo nella sua pienezza. Criticato ed apprezzato, certamente non può essere ignorato. Nella sua splendida rappresentazione della depressione riesce a smuovere qualcosa nel profondo, lasciando qualsiasi spettatore quantomeno sgomento. Personalmente è nella mia lista dei film del cuore. La bellezza visiva e acustica lo rendono l’opera adatta per un’esteta come me. Imperdibile per chiunque si definisca un cinefilo.

Classificazione: 4.5 su 5.

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