Il 22 dicembre è uscito su Amazon Prime Video il nuovo film di Emerald Fennell, “Saltburn”. Una pellicola che sta facendo parlare molto di sé, tra chi la disprezza e chi grida al capolavoro.

Una donna promettente

Che Fennell sapesse fare cinema era già chiaro a tutti con Promising Young Woman, film capace di conquistare critica e pubblico e di ricevere ben cinque candidature ai premi Oscar, per poi portarsi a casa la statuetta per miglior sceneggiatura originale. In Saltburn, però, la regista e sceneggiatrice si confronta con una sfida ancora più complessa e ne esce indiscussa vincitrice.

Saltburn racconta una storia pregna di oscurità che, paradossalmente, Fennell decide di mettere in scena con una fotografia piena di luce e di colori sgargianti. È un prodotto spiccatamente camp che fa dell’eccesso la sua cifra caratterizzante e che, attingendo ad espedienti narrativi già visti e a tematiche già ampiamente affrontate, riesce a mettere in scena qualcosa di nuovo.

Barry Keoghan: interpretazione da Oscar?

Uno dei punti di forza del film è sicuramente la magistrale prova di Barry Keoghan che, come già fatto ne Il sacrificio del cervo sacro di Lanthimos, interpreta un personaggio cinico, spietato e manipolatore, capace di conquistarsi con l’astuzia ciò che la vita ha ingiustamente dato ad altri e non a lui. Un vampiro, come si definisce in una disturbante scena del film, capace di succhiare via ogni goccia di sangue dal grande Leviatano fino ad arrestarne il cuore pulsante. Un Leviatano che, però, prende le sembianze di un’aristocrazia debole, spesso ridicola, incapace di abitare il proprio tempo, “cani viziati che dormono a pancia in su”, come afferma lo stesso Oliver (Barry Keoghan), convinti che la propria ricchezza possa salvarli dalla morte e dalla distruzione.

Un “Teorema” contemporaneo

Oliver, con i suoi profondi occhi azzurri, penetra nella famiglia Catton, la inganna, la seduce, proprio come l’ospite che in Teorema di Pasolini era capace di distruggere le certezze e gli equilibri della famiglia borghese con la propria bellezza. Il personaggio di Keoghan non si affida alla bellezza ma riesce comunque a sedurre (quasi) tutti perché, come afferma Venetia Catton in una scena del film, lui sembra “reale”. Oliver annienta i Catton semplicemente portando la crudele realtà del mondo esterno – la logica e l’arrivismo della lotta di classe – all’interno di un mondo chiuso, troppo distante (e schifato) da quell’”esterno” per conoscerlo davvero.

Oliver è l’unico personaggio reale nel mondo di Saltburn, un mondo popolato da macchiette sopra le righe, incapaci di vedere la realtà del mondo. È forse questa la più grande differenza col succitato Teorema: nel libro/film di Pasolini l’ospite riusciva ad aprire gli occhi della famiglia borghese – gettando così ognuno dei suoi membri nel baratro distruttivo di una vita costretta a rinunciare (e a rinnegare) tutti quei codici culturali sui quali, fino ad allora, si era basata –, in Saltburn, invece, tutti i membri della famiglia Catton rimangono intrappolati nella cecità del proprio privilegio fino alla morte, incapaci di vedere la verità che si cela dietro la propria triste sorte.

La rappresentazione dell’aristocrazia

Fennell decide di regalarci una rappresentazione molto caricaturale dell’aristocrazia: lo fa soprattutto con Elspeth Catton (Rosamund Pike), una donna cinica, egoista, apatica e maliziosa, e con James Catton (Richard E. Grant) il classico pater familias stupido, infantile e ridicolo. Nella famiglia Catton gli unici personaggi veri sono i figli, ovvero coloro che hanno ancora un contatto con il mondo esterno: Venetia, i cui disturbi alimentari sono ignorati e derisi dalla madre, e Felix (Jacob Elordi), un personaggio complesso che oscilla tra la figura dell’amico altruista e premuroso e quella di spietato homme fatal.

“Lo amavo?”

È proprio una presunta storia d’amore tra Oliver e Felix ad aprire il film, in quella che si rivelerà essere una sorta di confessione del personaggio di Keoghan di fronte a una morente Elspeth. “Lo amavo? No, non lo amavo, gli volevo bene, era impossibile non volere bene a Felix” afferma Oliver nei primi secondi del film, prima che Fennell decida di raccontarci dall’inizio tutta la storia. Un incipit che nel finale sarà totalmente ribaltato:

“Io non gli volevo bene, so che tutti pensavano che gliene volessi. Io lo amavo, lo amavo, Dio se lo amavo, però, a volte, lo odiavo, sì, lo odiavo, odiavo tutti voi.”

Oliver (nel finale del film)

In definitiva, l’amore di Oliver per Felix, un amore destinato a non concretizzarsi mai, non sembra un amore per l’essenza del ragazzo, ma più un’ossessione per la sua ricchezza, per lo status che lo rende irresistibile. In questo – e nell’indiscutibile fascino di Elordi – risiede il potere che Felix riesce ad esercitare sugli altri, ed è questo che lo trasforma in un moderno homme fatal, qui in chiave puramente omoerotica.

“Danza sulla mia tomba”

Ed è questa componente omoerotica a richiamare film come Chiamami col tuo nome, a livello di messa in scena, e Estate ’85 (di Ozon, qui la recensione), a livello puramente narrativo. Un’influenza, quest’ultima, che diventa ancora più evidente nel finale, dato che il film di Ozon è tratto da un libro di Chambers intitolato Danza sulla mia tomba. Fennell si spinge molto oltre il semplice danzare, realizzando una scena destinata a diventare iconica, ma il riferimento appare abbastanza evidente.

La sessualizzazione del personaggio di Elordi

È interessante, a livello registico, la rappresentazione del personaggio interpretato da Jacob Elordi: la macchina da presa indugia più volte sul suo corpo, spesso anche a distanza molto ravvicinata, lo oggettivizza e ne sessualizza i gesti (il classico male gaze viene totalmente ribaltato). A ben vedere, sembra che la regia di Fennell voglia restituirci lo sguardo di Oliver, per cui Felix è oggetto d’attrazione ma anche un semplice oggetto, la cui bellezza è comparabile solo al fascino di tutta la ricchezza che lo circonda e, come quest’ultima, destinata a diventare solo un oggetto di cui godere attraverso il pieno possesso.

Citazionismo e ispirazioni

Sono tante le fonti che sembrano aver ispirato Emerald Fennell nella realizzazione di questo mosaico pressoché perfetto che è Saltburn: oltre ai già citati Teorema, Chiamami col tuo nome, Estate ’85 e Il sacrificio del cervo sacro appaiono evidenti anche le influenze di film come Parasite – relativamente alla lotta di classe – e I misteri del giardino di Compton House di Peter Greenaway – per quanto riguarda la messa in scena dell’aristocrazia – , e Il talento di Mr. Ripley; infine, a livello strutturale, Saltburn è costruito sul modello del romanzo ottocentesco, motivo per cui avrebbe potuto tranquillamente diventare una serie televisiva. A Fennell, perciò, va riconosciuto anche il merito di aver saputo condensare in circa 135 minuti una storia articolata e complessa, calibrando perfettamente il ritmo della narrazione.

Conclusioni

In conclusione, Saltburn è un film affascinante e tecnicamente magnifico. In alcuni momenti potrà risultare leggermente prevedibile, ma mai noioso o troppo banale. Un film che si inserisce perfettamente nell’onda del cinema contemporaneo, capace di raccontare storie a volte già viste ma attraverso uno sguardo (gaze) nuovo e troppo a lungo ignorato. Ne sentiremo parlare sicuramente a lungo e, probabilmente, anche quando l’Academy annuncerà le candidature ai premi Oscar.

VOTO:

Classificazione: 5 su 5.

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