40 anni di un cult e un nuovo restauro che arriva nelle sale italiane dal 21 settembre, distribuito dalla Cineteca di Bologna, dopo l’anteprima al festival Il Cinema Ritrovato: The Elephant Man, opera seconda di David Lynch dopo l’esordio di Eraserhead, realizzata nel 1980 e ora restaurata da
StudioCanal con la supervisione dello stesso regista.

È la storia di John Merrick, l’uomo elefante, il freak della Londra vittoriana proto-industriale, deformato dalla malattia e ridotto a fenomeno da baraccone. Un film epocale, che ha cambiato le regole dell’horror, invertendo le dinamiche tra “mostro” e spettatore: chi ha paura di chi? Il restauro esalta il bianco e nero del grande Freddie Francis, dando nuova forza a questa attualissima riflessione sullo sguardo e sull’orrore, messa in scena da uno dei registi più visionari della storia del cinema.

Genesi del film


“Non so cosa sarebbe successo se avessi proseguito con film come Eraserhead. Forse non avrei potuto continuare a fare cinema”.

Effettivamente ce lo si chiede. Ma il destino ha dato una risposta a questo quesito e, comunque, non sembra che Lynch avesse intenzione di rivivere quell’avventura: si preparava a continuare a fare film in condizioni meno “estreme”, in altre parole, a diventare un regista.
E ci riesce, senza dover aspettare dieci anni, grazie a un angelo custode chiamato Stuart Cornfeld, un produttore esecutivo. Cornfeld aveva visto il film a Los Angeles e se ne era innamorato. Così telefonò a Lynch per dirgli che trovava il film straordinario. Questa conversazione segnava l’inizio
di un’amicizia e Cornfeld cominciò ad aiutare Lynch a fare altri film.
Il produttore Jonathan Sanger acquista i diritti della sceneggiatura di Elephant Man, scritta da Chris De Vore e Eric Bregren, la sottopone a Stuart Cornfeld che propone Lynch come regista. Il personaggio sorprende Sanger, già affascinato dalla maturità cinematografica di Eraserhead. Chiede di vedere The Grandmother e capisce che non si tratta di un episodio isolato.
All’epoca si parlava molto di Elephant Man, la pièce teatrale di Bernard Pomerance interpretata da David Bowie e ispirata a una storia vera: la vita di John Merrick, l’uomo-elefante, un mostro che viene sfruttato prima di finire in un ospedale. Dopo molti rifiuti, il copione trova la sua strada grazie a Mel Brooks. Cornfeld era produttore associato di La pazza storia del mondo, il più costoso della serie di parodie in cui era specializzato
Mel Brooks.
(Michel Chion, David Lynch, Lindau, Torino 2000)

Stuart fece avere a Anne Bancroft la sceneggiatura di Chris De Vore ed Eric Bergren. Anne la apprezzò molto e la passò a Mel Brooks: stesso risultato. Quindi la prima conseguenza fu che Mel decise di produrre The Elephant Man come film d’esordio della sua nuova compagnia, la Brooksfilms; e la seconda fu che lo stesso Mel disse: “Okay, Stuart: tu, Jonathan, Chris ed Eric siete della partita, ma chi è mai questo David Lynch?”.
Così gli raccontarono di Eraserhead; Mel ne aveva sentito parlare quando era in cartellone, ma non l’aveva mai visto. Perciò organizzarono una proiezione, il che mi terrorizzava: le possibilità che io dirigessi quel film erano… zero. Decisi di aspettare fuori dal cinema. Non rammento nulla fuorché le porte che si aprono e Jonathan che esce dalla sala; non è che sembrasse morto o roba simile, ma sul suo viso cera un’espressione che ricordava quella dei giurati del processo a O.J. Simpson: del tutto imperscrutabile. Ma ecco che Mel allunga il passo e viene quasi di corsa verso di me a braccia aperte, mi abbraccia e mi dice: “Sei un pazzo, ma mi piaci! Sei dei nostri”.
Dopodiché, a mo’ di ciliegina sulla torta, attaccò a parlare di Eraserhead. Be’, io conoscevo Mel solamente come comico, ma devo dire che è una persona assolutamente sorprendente, acuta e sensibile. Durante tutto il periodo di produzione di The Elephant Man era perfettamente al corrente di come andavano le cose sul set; non solo mi ha dato la mia grande occasione, ma mi ha sostenuto come nessuno ha mai più fatto da allora in poi.
(David Lynch, Io vedo me stesso, a cura di Chris Rodley, Il Saggiatore, Milano 2016)

La sceneggiatura di Chris ed Eric era ottima, ma era così fedele alla vicenda reale che dopo un inizio in crescendo finiva inesorabilmente per appiattirsi. La ristrutturammo da cima a fondo e aggiungemmo parecchie scene nuove; per esempio, il prologo e l’epilogo non erano previsti dallo script originale. Imparai moltissimo da quel lavoro, poiché non avevo mai fatto nulla di simile prima. Inoltre anche Mel ha partecipato parecchio alla sceneggiatura: per esempio circa il ruolo del portiere di notte… Pensava che lì la sceneggiatura non fosse abbastanza forte: una di quelle osservazioni che non solo giudichi giuste, ma ti autorizzano a intervenire dove in precedenza non eri stato in grado di estrarre tensione sufficiente da una situazione. Pertanto Mel avanzò una serie di considerazioni azzeccatissime, che ci furono molto utili.
(David Lynch, Io vedo me stesso, a cura di Chris Rodley, Il Saggiatore, Milano 2016)

Lynch non riusciva ad immaginare un film come questo se non in bianco e nero, ma temeva che Mel Brooks potesse opporsi ad un simile progetto. Il produttore, invece, accettò con entusiasmò. Il regista partì allora alla volta dell’Inghilterra, luogo delle riprese del film. La direzione della fotografia è affidata a Freddie Francis il quale, oltre a essere uno dei migliori operatori britannici, aveva diretto anni addietro alcuni horror di ottima levatura per la “famigerata” Hammer Film. A lui si deve il bellissimo bianco e nero che si imprime nella memoria soprattutto per le ricorrenti immagini di macchinari che emettono fumo bianco e sbuffi di vapore. Per quanto attiene agli interpreti, Lynch, che in Eraserhead aveva fatto recitare soprattutto amici e conoscenti, si trova a dirigere attori della levatura di Anthony Hopkins, che interpreta il ruolo del dottor Treves, di John
Hurt
, superbo interprete dei tormenti di Merrick nonostante il pesante trucco lo renda davvero irriconoscibile, di Anne Bancroft e di sir John Gielgud. Lynch si misura inoltre per la prima volta con il grande formato, essendo Elephant Man girato in Panavision.
(Riccardo Caccia, David Lynch, Il Castoro, Milano 1993)

La prima di The Elephant Man ha luogo a New York nell’ottobre del 1980. A tutt’oggi questo resta il maggior successo di pubblico di Lynch, gli varrà diverse nomination all’Oscar, tra cui quelle per il miglior film e la miglior regia, ma non gli varrà nemmeno una statuetta. La scommessa di Mel
Brooks di affidare la regia di un film commerciale ad un cineasta che molti vedevano come un giovane di talento destinato a rimanere nell’ambito del cinema underground e sperimentale, si rivela vincente. Pur trattando un materiale preesistente, Lynch si rivela capace di rispettare il testo, piegandosi alle esigenze commerciali senza troppe ritrosie, pur non rinunciando ad immettere nell’opera elementi decisamente personali.
(Riccardo Caccia, David Lynch, Il Castoro, Milano 1993)

Chi era John Merrick

John Merrick, il protagonista di Elephant Man, è vissuto alla fine del XIX secolo. Grazie alla documentazione fotografica dell’epoca si è potuto conoscerne l’aspetto. Fin dall’infanzia era afflitto da una malattia rara che rendeva la sua pelle spugnosa e cadente. Il suo cranio gigantesco era
deformato da protuberanze. Sul volto, il labbro superiore sporgeva verso l’esterno, ricordando vagamente una proboscide – da cui il suo soprannome – mentre gli arti inferiori erano deformi. Era zoppo a causa di una malattia alle anche e, dulcis in fundo, emanava un odore pestilenziale.
Secondo il suo protettore, il dottor Treves (il cui libro è stato una delle fonti della sceneggiatura), aveva girato per vent’anni da un luna park all’altro, coperto da un cappuccio calato sulla testa gigantesca. Treves scoprì l’uomo elefante in un baraccone di Londra dove veniva esibito per due penny. “Alzati!” gli ordinava l’individuo che lo sfruttava. A questa frase si sono ispirate molte scene del film. Fu così che Treves scoprì ciò che ai suoi occhi era “l’esemplare umano più abominevole che fosse mai esistito”. La sua indignazione lo spinse a fare intervenire la polizia affinché impedisse lo spettacolo. Ma ciò non ebbe alcun risultato se non quello di obbligare Bytes, il “proprietario”, a lasciare l’Inghilterra e a tentare, senza successo, di presentare il suo spettacolo in Francia e in Belgio. Alla fine Bytes abbandona la sua creatura su un treno dove viene arrestata dalla polizia. Gli trovano addosso un biglietto da visita che Treves gli aveva lasciato durante uno dei loro incontri. Contattato, il professore si adopera ad alloggiare quel poveretto in due stanzette dell’ospedale in cui lavorava.
Per contribuire al mantenimento decide di sensibilizzare l’opinione pubblica e le donazioni cominciano ad affluire: Merrick diventa così una persona famosa che riceve molte visite, perfino quella della famiglia reale. Inizialmente si pensava fosse un ritardato mentale perché la timidezza
gli impediva di esprimersi. In realtà era intelligente e colto, adorava i romanzi sentimentali e, secondo Treves, si innamorava di tutte le belle donne che lo andavano a trovare, singhiozzando ogni volta che esse gli davano segni di amicizia e gentilezza. Fu trovato morto nel suo letto nell’aprile 1890: l’enorme testa gli aveva spezzato le vertebre cervicali. Era questa la ragione infatti per cui poteva dormire solo seduto, appoggiato a cuscini, con il capo fra le ginocchia. Sarebbe dunque morto per il desiderio di dormire come tutti gli altri.
Ben si può immaginare l’impatto emozionale di questa storia vera, ma anche la difficoltà a introdurvi nuovi sviluppi, a meno di prendersi notevoli libertà rispetto al racconto di Treves, come hanno fatto gli autori sia nei fatti che nella cronologia.
(Michel Chion, David Lynch, Lindau, Torino 2000)

Il trattamento traumatico del corpo umano si situa in una costellazione cinematografica che ha portato – negli anni Ottanta – a ridefinire i limiti della visibilità: basta pensare al cinema di David Cronenberg, ai deliri splatter di Brian Yuzna, ai film di Jorg Buttgereit, all’opera di Shin’ya Tsukamoto. David Lynch, a dire il vero, non sembra particolarmente interessato a costruire intorno al concetto di corpo una riflessione di stampo epistemologico (come e nel caso di Cronenberg) o a fissare nuovi confini nelle pratiche sociali del guardare (Buttgereit). Piuttosto, sembra deciso a definire la presenza inalienabile delle eiezioni corporee nel nostro mondo, e a ricordare la perenne esistenza del corpo in quanto fattore di orientamento nelle comunicazioni interpersonali, nel rapporto che abbiamo con gli altri. L’insistenza su persone sgradevoli, handicappate o deformi non va – bisogna ribadirlo – letta in funzione puramente comica (cinica) o orrifica, bensì all’interno di un sottile ragionamento sulle reazioni del nostro guardare la deformità. Reazioni che riguardano alcuni personaggi del film o gli spettatori stessi. Analizzando i film più “classici” di Lynch, ci si accorge che The Elephant Man rappresenta proprio, in termini melo-drammatici e codificati, il sistema di lettura dell’opera di questo regista. Il racconto della vita di John Merrick, che non rinuncia né al morboso né al comico né all’orrore, sembra più concentrato sull’effetto
sortito dal repellente somatico sugli uomini che interagiscono con il protagonista. che non sulla incolpevole mostruosità dello stesso. Ciò non impedisce, peraltro, a Lynch di costruire alcuni quadri astratti, all’interno dell’affidabilità narrativa della pellicola, nei quali il corpo o la testa deformati di Merrick assumono una valenza quasi artistica.
(Roy Menarini, Il cinema di David Lynch, Falsopiano, Alessandria 2002)

Una Londra vittoriana/lynchana

Per me è stata una delizia lavorare in bianco e nero; ho una mia teoria balorda sulle storie ambientate nell’epoca vittoriana: siccome quella è stata davvero l’alba dell’era fotografica, credo fermamente che un pubblico che veda un film vittoriano con la fotografia in bianco e nero la accetti
inconsciamente come l’atmosfera originale. La Londra degli anni Quaranta dell’Ottocento era piuttosto tetra. Normalmente se si gira in modo neutro è molto difficile rendere il tutto tetro e trasandato come dovrebbe essere, ma secondo me guardando The Elephant Man si capisce che ci siamo riusciti. In pratica non c’è un trucco magico, mi limito a sistemare le luci sul set finché non ho l’illuminazione giusta. Pensando in particolare a The Elephant Man, cerco di visualizzare la scena. Se mi trovassi a Londra nel 1840 in quel periodo dell’anno, da dove verrebbe la luce?
Probabilmente non ce ne sarebbe molta. Secondo: se ci fosse, la luce sarebbe mischiata con un sacco di fumo proveniente dai camini accesi e dalle schifezze che ci bruciano dentro, dunque metti insieme tutte queste cose finché l’atmosfera che crei sul set non è quella della Londra vittoriana del 1840.
(Freddie Francis, David Lynch. Perdersi è meraviglioso, Minimum fax 2012)

Qualcuno si è infastidito per il modo in cui il film ritrae le classi popolari – pronte a irridere rozzamente la deformità dell’eroe, e a eccitarsi a guardarlo ecc. Tuttavia il film non le giudica. Le tratta come Dickens: la durezza e la grossolanità attribuite ad alcuni personaggi vanno lette in questa chiave. La gente che va a vedere l’uomo-elefante non è particolarmente malvagia, è come tutti gli altri, come noi. La sceneggiatura istituisce un parallelo costante fra la curiosità distinta e morbosa dei benpensanti e quella più diretta del popolo, mostrando come siano fatte della stessa pasta. In una scena molto bella, che mostra ancora una volta – attraverso l’interpretazione di Wendy Hiller – come il cinema inglese sia l’unico in Occidente a offrire un’immagine degna, sensata e non demagogica delle classi popolari e della gente semplice, la capo-infermiera protesta davanti a Treves, con tutto il suo buon senso e la sua compassione, contro il corteo perverso di gente perbene avida di sensazioni. Ma tutto lo scarso personale femminile dell’ospedale è ritratto con umanità e tenerezza.
(Michel Chion, David Lynch, Lindau, Torino 2000)