Giappone, marzo 2001. Mentre l’occidente si diletta tra le canzoni di Britney Spears e il benessere economico il Paese del Sol Levante sta affrontando una delle crisi socio-economiche più brutali della sua storia. È in questo contesto di declino che il cinema giapponese cresce, sfornando opere tanto violente quanto geniali. Tra queste una delle più eccessive è sicuramente Visitor Q del genio Takashi Miike. Un’opera che vi sconvolgerà sia visivamente che psicologicamente.

Trama

Un uomo ha l’ambizione di girare un documentario sulla violenza giovanile e per questo decide di intervistare una ragazza che si prostituisce. Tornando a casa viene colpito alla testa da un uomo che si introdurrà nella sua quotidianità mettendo in evidenza la disfunzionalità dell’intera famiglia Yamazaki.

Trailer di Visitor Q

Recensione

Circa un mesetto fa vi avevamo presentato la prima lista dei “10 film estremi imperdibili” e, tra questi, non poteva mancare lo splendido e altrettanto controverso Visitor Q di Takashi Miike. In questo film non manca niente, ma veramente niente! Incesto, prostituzione, violenza, necrofilia e chi più ne ha più ne metta. Ma credetemi, la pellicola non è fatta per scioccare e basta. Questa pellicola è pensata come una critica della situazione socio-economica giapponese tra gli anni ’90 e gli anni 2000 e vuole lanciare un messaggio di speranza verso il paese di origine del regista. Per cui sedetevi comodi, lasciate da parte il buon gusto e aprite la mente.

Love Cinema

Visitor Q nasce come esperimento cinematografico all’interno del progetto Love Cinema di CineRocket. Il film esce in versione “straight-to-video” ossia senza il passaggio nelle sale cinematografiche (tranne per un breve passaggio nella piccolissima sala cinematografica Shimokitazawa di Tokyo) ma direttamente su supporto video. Tendenzialmente questa modalità viene utilizzata per i film indipendenti e per le case di produzione più piccole. È l’ultimo di sei pellicole di analisi sociale tra cui spiccano Tokyo Trash Baby, Enclosed Pain e, appunto, Visitor Q.

Il contesto storico [1]

Per poter capire completamente Visitor Q è necessario immedesimarsi nel contesto storico in cui il film è stato girato. Il Giappone, infatti, in seguito all’espansione economica nel dopoguerra, ha dovuto affrontare una grandissima bolla speculativa innescatosi nel 1986 e scoppiata nel 1991. In questo contesto di profondo disagio economico tutti i valori cardine del periodo storico precedentehigh performance, benessere individuale e efficienza produttiva – vennero messi in discussione. In particolare, i giovani, abituati a un sistema estremamente materialista, si ritrovarono a fare i conti con una mancanza di agiatezza che portò a un desiderio di ribellione agli standard impossibili richiesti loro fino a quel momento. Le scuole giapponesi, fondamentali per l’accesso al mondo del lavoro, richiedevano, infatti, un grado di preparazione tale da mettere a repentaglio la salute mentale degli studenti. Tra gli anni ’90 e il 2000 nascono diversi fenomeni che scatenarono la preoccupazione della società giapponese. I giovani, infatti, vivevano in un contesto sociale in cui i padri erano assenti per la maggior parte del tempo e le madri erano divise tra la necessità di educare i propri figli , senza il supporto di una figura paterna, e quella di amarli . Questo clima di profonda confusione portò alla nascita di fenomeni di estremo bullismo (’ijime, 苛め), il cosiddetto ’enjo kōsai, (援助交際) ossia il fenomeno per cui moltissime ragazze tra i 12 e 17 anni e tantissime madri di famiglia iniziarono a prostituirsi con uomini d’affari in cambio di denaro o doni e il tōkōkyohi, (登校拒否), ossia il rifiuto dei bambini di recarsi a scuola. Tutto ciò unito alla crescita della criminalità organizzata, portò il sistema valoriale giapponese sull’orlo del crollo e questo si riversò sulla settima arte. Sono tantissime, infatti, le opere cinematografiche che trattano questi temi tra cui lo splendido Battle Royale, Bounce Ko Gals e nonché, appunto Visitor Q.

Miki Yamazaki rappresentazione dell’enjo kōsai,

Da Occidente a Oriente: Teorema di Pasolini e le analogie con Visitor Q

Parlando di Visitor Q è impossibile non accennare a Teorema di Pier Paolo Pasolini del 1968. Le due opere, infatti, condividono il fulcro della trama pur essendo profondamente diverse una dall’altra sotto diversi aspetti. In primis è innegabile la sofisticatezza del linguaggio pasoliniano che in pochissime battute tratta in modo filosofico temi quali la distruzione della borghesia e il concetto di artista. Linguaggio che non ritroviamo in Visitor Q. Se Teorema risulta violento in concetto, Visitor Q è violento in atto. Le scene sono estreme, prive di una qualsiasi censura, volte a mostrare tutto allo spettatore. Una vera delizia per i cultori del cinema estremo. Inoltre, anche la figura stessa del Visitatore ha, nelle due opere, una concezione completamente antitetica. Se, infatti, il ruolo del Visitatore è quello di “salvare” le due famiglie, diverso è il percorso e il fine ultimo che vedrà travolti i due nuclei. In Teorema il Visitatore dall’aspetto angelico ha il ruolo di scoperchiare la patina borghese dietro cui si nasconde la famiglia, portando alla luce vizi e virtù dei personaggi, e quindi smascherarli per quello che sono. In Visitor Q il percorso è completamente opposto. Il Visitatore assiste alle brutture della famiglia al fine di far prendere coscienza agli stessi membri e permettergli di salvarsi.

Il Visitatore di Pasolini

“Sei venuto a distruggere la mia famiglia vero? Grazie!”

Dice Takuya al Visitatore in Visitor Q

Entrambe le famiglie vengono salvate dalla presenza dell’estraneo ma il concetto di salvezza è relativo al tipo di realtà che vivono i protagonisti delle nostre vicende.

Meta-cinematografia della violenza

Una cosa che notiamo fin dalla primissima inquadratura è l’aspetto fortemente meta-cinematografico della pellicola. Il padre è un reporter e il film inizia con un finto mocumentary. La scena, infatti, ci viene presentata come una ripresa effettuata dal padre durante l’incontro con la prostituta. Mentre lui la riprende lei gli scatta delle fotografie rendendo la scena un gioco di visione attraverso lo schermo. Se, da una parte questa tecnica permette a noi spettatori di inserirci all’interno della scena, dall’altra estrania i personaggi dalla loro realtà.  I due, infatti, per quanto sembrino presenti a sé stessi, anestetizzano la realtà e la perversione di questa scena perché la vivono attraverso le immagini riprese. Come lo spettatore vive la violenza sullo schermo come un gioco, così i due protagonisti vivono il loro rapporto perverso come se fosse un gioco erotico. Tutto ciò si ripeterà poche scene più avanti quando assisteremo al pestaggio di Takuya, il figlio del signor Yamazaki. Il padre non interverrà a difesa del figlio ma preferirà riprendere la scena. Immortalare un atto di violenza diventa più importante di impedirne la sua messa in atto. L’atteggiamento del signor Yamazaki è di incitamento alla violenza con il fine di poterla riprendere. È in ciò che si manifesta tutta la meta-cinematograficità della pellicola. La figura del signor Yamazaki e quella del regista si sovrappongono. Come il signor Yamazaki incita i ragazzi a maltrattare il figlio al fine di poterli riprendere, così il regista incita i suoi attori a mettere in atto un film come Visitor Q per poterli riprendere e creare il suo “documentario” sulla realtà della situazione sociale giapponese. In questo gioco tra regista e attori ci inseriamo noi spettatori con il nostro desiderio voyeristico. Ancora una volta ci troviamo divisi a metà tra lo shock e il desiderio di essere sconvolti. Desiderio che Takashi Miike riesce a soddisfare con successo.

La gerarchia delle responsabilità

Quando una società è allo sfascio la colpa viene attribuita sempre ai giovani. Lo abbiamo vissuto sulla nostra pelle quando ci è stato dato dei “choosy” qualche anno fa.

“Vuoi conoscere gli adolescenti di oggi? Rappresentano il futuro del Giappone, quel futuro senza speranza”

Il Signor Yamazaki rivolgendosi a Miki e indirettamente allo spettatore

Takashi Miike fa un’opera di redenzione, cercando di ridistribuire giustamente le colpe e lo fa con un abile espediente narrativo. Egli, infatti, parte presentandoci vizi e virtù dei più giovani per poi arrivare al Signor Yamazaki e la Signora Yamazaki. Facendo questa “camminata all’indietro”, ci ricorda che dietro ad ogni giovane sbandato c’è un genitore altrettanto incapace del suo ruolo genitoriale. E dietro ogni genitore incapace c’è il crollo valoriale di una società che non riesce a tenere saldo il tessuto umano.

La personificazione dei fenomeni socio-culturali del Giappone tra gli anni ’90 e il 2000

Miike usa i suoi personaggi per rappresentare i diversi aspetti della decadenza della società giapponese ed è quindi necessario analizzarli uno alla volta per poter eviscerare completamente l’opera.

I paragrafi indicati con il nome dei personaggi contengono spoiler

Miki

Miki rappresenta appieno il fenomeno dell’enjo kōsai, già trattato nel primo paragrafo di questa recensione. Lo sguardo spento e distaccato della ragazza rappresenta alla perfezione l’apatia dei giovani degli anni ’90 in Giappone. Miki fa la prostituta e non le interessa parlare o dialogare, tutto ciò che le interessa è guadagnare i 5000 yen che chiede in cambio di un rapporto sessuale. Ma, ancor più, è una ragazza così attaccata all’aspetto materiale e al guadagno da non farsi alcuno scrupolo ad andare a letto con suo padre. Miike gioca con lo spettatore facendogli intuire questo aspetto ma rivelandolo solo in un secondo momento. Infatti, attraverso la frase: “l’hai mai fatto con tuo padre?”, ci suggerisce fin da subito quali siano i rapporti di parentela tra i due. Ci instilla il dubbio ma lo confermerà solo nelle scene successive quando il Visitatore chiederà a Takuya di chi sia la camera al pian terreno e, vedendo le foto appese, riconosceremo la bella Miki. Questo espediente ci permette di ritardare il giudizio sul Signor Yamazaki, che inizialmente identifichiamo come un semplice reporter che, una volta trovatosi da solo con la ragazza , non riesce a resistere alle sue provocazioni e cede alla lussuria.

Takuya

Takuya è il secondo personaggio che ci viene introdotto e rappresenta il bullismo e la mancanza di regole dei giovani di quegli anni. Come fatto precedentemente con Miki, il regista ci mostra prima il comportamento disfunzionale del ragazzo. La struttura della narrazione, infatti, ci consente di identificarlo fin da subito come figlio di Keiko Yamazaki. Lo vediamo picchiare la madre per un futile motivo. Nella scena, la madre non si ribella alla violenza del figlio, la subisce passivamente chiedendo unicamente che le venga risparmiato il viso. Questo aspetto, inizialmente attribuibile alla volontà, da parte della madre, di mascherare il più possibile i maltrattamenti da parte del figlio scopriremo poi essere una velleità della stessa. Anche in questo caso Miike ci sbatte in faccia i peccati di Takuya. Ci porta a giudicarlo negativamente come farebbero gli adulti di una società decadente. Solo avanzando nella pellicola ci verrà mostrato come Takuya non solo sia vittima di bullismo da parte dei suoi coetanei, ma come suo padre sia una figura completamente assente, dedito solo e unicamente al suo lavoro. Così dedito da non intervenire quando Takuya sarà brutalmente pestato.

Keiko

Con l’introduzione del personaggio di Keiko, Miike ci permette di fare quel primo passo indietro nella gerarchia delle responsabilità. Lei rappresenta la decadenza della figura della madre nella società giapponese degli anni post bolla finanziaria. Nella cultura giapponese la madre è una figura fisicamente e psicologicamente presente all’interno della famiglia. La madre giapponese è il perno centrale per i suoi figli con i quali instaura un rapporto estremamente simbiotico, identificato con il concetto di amae [2]. Tale concetto è strettamente legato all’idea di dipendenza o di volere che qualcuno si prenda cura di te che è tipico del rapporto madre-figlio. Questo concetto nella figura di Keiko è inesistente. Vessata dal figlio e ignorata dal marito che preferisce la figlia più giovane a lei, Keiko decide di anestetizzarsi attraverso l’uso di eroina. Vizio che manterrà praticando a sua volta la prostituzione. Impossibile dire con certezza quanto l’assenza di Keiko sia causa dei mali dei suoi figli e quanto lei stessa sia vittima di tale meccanismo. Sappiamo solo che il suo seno è colmo di latte, simbolo per antonomasia della madre che nutre e della dipendenza del figlio dalla madre. Sarà il Visitatore a capire finalmente che la necessità di Keiko è riuscire a spremere quel latte e riprendersi il suo ruolo all’interno della dinamica familiare.

Signor Yamazaki

Il Signor Yamazaki è forse il fulcro di questo percorso a ritroso. È, infatti, la figura di cui scopriamo il grado di perversione man mano che ci addentriamo all’interno della pellicola. Se inizialmente ci appare come un semplice reporter che cade in tentazione di fronte a una bellissima prostituta, man mano che procediamo nel racconto ci rendiamo conto di tutte le sue brutture. In primo luogo, è un padre assente, emblema dell’assenza dei padri nella cultura giapponese dettata dal sovraccarico di lavoro cui sono sottoposti. Questo fenomeno è così preponderante da aver portato alcuni padri di famiglia a rivolgere il senso di appartenenza alla famiglia verso le aziende per cui lavorano [3]. Il senso del dovere verso il suo lavoro, nonché il desiderio di autorealizzazione, è così presente nella figura del signor Yamazaki da portarlo a non reagire di fronte agli atti di bullismo subiti dal figlio. Il padre, come figura di riferimento per la famiglia giapponese viene demolito e moralmente evirato. Viene, infatti, ridicolizzato dalla figlia Miki per il suo problema di eiaculazione precoce. Miike depaupera la figura maschile della loro mascolinità. In questo modo, l’unico modo che ha il signor Yamazaki per riappropriarsene è sottomettere la figura femminile che lo sta ridicolizzando. Infatti, quando mette in atto la violenza sessuale sulla collega, lo sentiamo ripetere frasi che rimandano a ciò che ha vissuto con la figlia. Ma ciò non basta. La piccolezza del signor Yamazaki si rende completamente manifesta quando decide di abusare del cadavere della collega. Con quell’atto di necrofilia tra il macabro e il grottesco, Miike ridicolizza la figura di un uomo la cui virilità è spendibile solo con un essere totalmente inerme: una donna morta. Con questo espediente il regista ci sta descrivendo la decadenza dell’uomo all’interno della società giapponese, non solo in qualità di figura paterna, ma anche in qualità di figura maschile. Evira il suo personaggio rendendolo macchiettistico. Solo il Visitatore potrà ribaltare le sorti del signor Yamazaki, riportandolo dalla sua famiglia e soprattutto da sua moglie, la quale gli porgerà il seno a cui aggrapparsi per rinascere.

Le mie considerazioni

Sono passati ormai cinque anni da quando sentii parlare per la prima volta di questo Visitor Q. Quello che mi colpì, inizialmente, fu la violenza narrata nella trama. Ciò mi pose nella condizione di provare una forte curiosità per la perversione messa in mostra da Miike ma non mi fece capire quanto profonda fosse, in realtà, quest’opera. Per lungo tempo tenni Visitor Q nella mia watchlist, aspettando il momento in cui avrei avuto voglia di cinema estremo. Quando quel giorno arrivò rimasi profondamente colpita. Il film era violento, esattamente come me lo aspettavo, ma non era una mera messa in scena dell’estremo ma era un’opera con il desiderio di gridare il disagio profondo di un paese. Ma Visitor Q va anche oltre. Toglie pesantezza al tema inserendo del voluto grottesco che non può far altro che farci comparire un sorriso spontaneo. Iconica la scena dei “misteri della vita” (che poi misteri non sono). Estremo, divertente e drammatico al tempo stesso. Un film a cui non manca veramente niente e che io consiglio caldamente a tutti i poco impressionabili.  

Classificazione: 4 su 5.

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