Grazie al successo planetario di Squid Game, è scoppiata la febbre da giochi mortali in formato serie tv. Netflix lo sa e, ovviamente, ha iniziato a pompare titoli simili. Tra questi, Alice in Borderland: serie giapponese rilasciata nel 2020, costituita da una stagione di 8 puntate e basata su un manga di Haro Aso.

Trama

Arisu è un ragazzo sveglio, appassionato di videogiochi, trattato con diffidenza dalla famiglia dal momento in cui ha lasciato l’università. Un giorno, l’intera popolazione di Tokyo scompare nel nulla, fatta eccezione per Arisu e i suoi due migliori amici Karube e Chota. I tre cercano di trovare una spiegazione a questo fenomeno, finendo per essere coinvolti in un game mortale. Da questo momento il protagonista cercherà di dare un senso alla nuova vita che è costretto a vivere, mentre i games spietati non si fermano.

Arisu nel paese delle follie

Arisu (non conosco la lingua, ma credo si tratti della traslitterazione giapponese del nome Alice) è quello che può essere definito un hikikomori – più o meno. Si tratta di un fenomeno sociale diffuso soprattutto in Giappone che colpisce in genere i più giovani. Gli hikikomori sono coloro che fuggono dalla vita sociale e si chiudono in se stessi per diversi motivi, generalmente a causa della forte pressione sociale che annulla l’individuo: della serie, se non hai successo, non vali niente. La frenetica società giapponese e il modo in cui tratta i suoi cittadini è al centro del mirino della critica di questa serie. Arisu è un disadattato in quella realtà, ma quando quella stessa società scompare nel nulla e una nuova terra “di confine” appare, quali sono i discriminanti? Cosa ti rende adatto alla vita? La conoscenza che Arisu ha dei rompicapo e dei meccanismi dei videogiochi – tutto ciò per cui era giudicato un buono a nulla – si rivelano utili e salva-vita in questo nuovo mondo.

Arisu, come la Alice di Carroll, si ritrova catapultato in un mondo strambo, al quale cerca di trovare un senso – anche se un senso sembra non esserci, giocando il caso un ruolo fondamentale. Alice cambiava continuamente taglia, passando da grande a piccola, per trovare il suo posto nel paese delle meraviglie; anche Arisu muta, passando attraverso diversi stadi (stupore-paura-ingegno-sofferenza) fino ad un “risveglio” metaforico che gli farà finalmente dare valore a ciò che aveva troppo dato per scontato. I riferimenti ad Alice nel paese delle meraviglie sono visibili anche nei nomi dei personaggi: oltre ad Arisu troviamo il Cappellaio, Chishiya (“Cheshire cat”, ovvero lo Stregatto) e Usagi (“coniglio”, in riferimento al Bianconiglio).

I games e i personaggi

Il punto forte della serie sono sicuramente i suoi games, gli effetti speciali e il ritmo serrato. Ogni gioco è ben congegnato e ognuno di essi appartiene ad una categoria diversa, segnalata dal segno delle carte da gioco che compaiono all’inizio di ogni sfida: ci sono i giochi di resistenza fisica o quelli più crudeli, i giochi di cuori, che fanno leva sui sentimenti dei giocatori. Ogni game prevede il raggiungimento di uno scopo e solo chi capisce il vero meccanismo che c’è dietro riesce a sopravvivere. Inutile specificare infatti che chi perde, muore. Ma Alice in Borderland non è soltanto azione e sangue. È anche relazioni tra personaggi: chi non si fa scrupoli a tradire, chi nasconde la propria identità e chi, invece, è pronto a fare squadra per trovare la soluzione e superare il game. Il ritmo è spesso spezzato da flashbacks che ci mostrano la vita dei personaggi, chi erano prima di finire lì, rafforzando l’empatia dello spettatore. E qui “spezzare” non ha un’accezione negativa perché se fosse tutto corse, esplosioni e uccisioni, ci sentiremmo così travolti da non capire più che si sta andando a quella velocità, il ritmo finirebbe per apparirci piatto e la situazione noiosa.

Altro punto forte, che rende la serie interessante e che ti fa premere sul tasto “prossimo episodio”, è sicuramente l’imprevedibilità. Dopo soli tre episodi, un arco narrativo si chiude e un secondo si apre, introducendo nuovi personaggi, nuovi rapporti e nuovi luoghi. L’assurdità della situazione non accenna a diminuire e, anzi, si avvia verso un ulteriore ampliamento che presumibilmente vedremo nella seconda stagione (la serie è stata infatti rinnovata). Proprio come in un videogioco, il mondo si espande e si sale di livello.

Fenomeno Squid Game

Nonostante Alice in Borderland si trovasse su Netflix da ben prima di Squid Game, è quest’ultima ad aver attirato l’attenzione dei neofiti verso i prodotti orientali. Probabilmente perché Squid Game si fonda sulla prevedibilità e su una formula alquanto semplice, riuscendo ad abbracciare un pubblico più ampio, grazie anche ad una “maschera” che strizza l’occhio al mondo occidentale – che, novità delle novità, è la parte del pianeta che ha il potere di decidere cosa ha successo e cosa no. Un occidentale che guarda un’opera orientale, infatti, si ritrova di fronte ad un’altra grammatica visiva, ad altri tempi, ad un altro tipo di recitazione. Il che può essere straniante, ovviamente. E Alice in Borderland, effettivamente, è molto più weird ma anche, a parer mio, più interessante.

Le due serie hanno punti di contatto ma divergono su molti aspetti. Ad esempio, per quanto riguarda il protagonista, sicuramente lo spettatore riesce ad immedesimarsi più in Seong Gi-Hun: sommerso dai debiti, è un uomo alquanto nella media, senza alcun talento particolare e nessuna caratteristica de “supereroe”. Arisu invece è distante dal personaggio col quale identificarsi perché è l’eccezionalità, come lo era il genio della matematica Leaven in Cube. Seong Gi-Hun è, insomma, “uno di noi”, a differenza di Arisu. E mentre i giochi di Squid Game ripropongono sadicamente i giochi che i partecipanti facevano da bambini, le sfide di Alice in Borderland sono più elaborate, complesse e spettacolari, anche perché l’ambientazione lo permette. Entrambe le serie, infine, sono debitrici di opere cult come Battle Royale e As the Gods Will, trovando però una propria identità e risultando meno estreme: c’è la giusta dose di violenza, ma niente che impressionerà chi fa colazione con pane e Takashi Miike.

Seong Gi-Hun / Arisu

Da Cube, passando per Saw fino a Escape Room, i film con rompicapo, trappole e giochi non sono mai mancati nelle nostre sale cinematografiche e/o salotti di casa. Magari è la formula serial con più episodi, più livelli e una durata potenzialmente mooolto lunga che sta attirando spettatori da ogni dove, anche quelli non familiari con l’horror e affini. E se questo può far riscoprire opere più di nicchia, fuori dal panorama americano (ed europeo), o anche solo far affacciare nuovi spettatori verso un mondo del tutto diverso e sconosciuto, allora in fondo Netflix va ringraziato.

Frame tratto da As the Gods Will di Takashi Miike (2014)