Il 28 maggio 1999 usciva nelle sale italiane Cube – il cubo, un film destinato a entrare tra i cult della filmografia horror. Per la regia di Vincenzo Natali, Cube è un piccolo gioiellino che decisamente non potete perdervi.

Trama

Sei sconosciuti si risvegliano all’interno di una stanza dalla forma cubica. Nessuno di loro sa perché si trova all’interno della struttura, né come ci sia arrivato ma ben presto capiranno che, quello che sembra uno scherzo di cattivo gusto, può trasformarsi rapidamente in una trappola mortale.

Recensione

Nel 1997 Vincenzo Natali è un esordiente regista canadese (si lo so che avete sperato fosse un nostro compaesano ma lo è solo per metà). Lui ha un sogno, che non è semplicemente avere un sogno: Vincenzo vuole girare un film. Cube – il cubo nasce così, sulla scia delle emozioni e della voglia di fare. Cosa? Boh, l’importante è fare ed è l’esempio perfetto di quanto, nella maggior parte dei casi, non siano i soldi a fare il film, ma la passione e le buone idee. Il film è stato realizzato con un budget di soli 350.000 dollari. È interamente girato all’interno di un cubo di volume pari a 4,2 m3, anzi di un cubo e una struttura gemella, ma con solamente tre lati. Infatti, dato lo scarso budget, per creare l’effetto del passaggio da una stanza all’altra si sono sfruttate queste due strutture e un abile uso della camera. Aggiungici un buon uso del colore e hai creato l’illusione perfetta.

Lo straniamento

Il film inizia con la presentazione di sei dei sette personaggi. Ognuno di loro è caratterizzato dalla professione che svolge: il poliziotto, la dottoressa, la studentessa, l’architetto e il ladro. Nessuno di loro sa il perché si trovi all’interno del cubo, ma il punto principale è che non è importante. Infatti, proseguendo all’interno del film è possibile notare che, a differenza di pellicole similari, a volte anche ispirate allo stesso (vedi la saga di Saw), il motivo è inesistente. Questo piccolo, ma non indifferente dettaglio, porta la pellicola ad essere particolarmente straniante. La nostra mente è programmata per ricercare delle spiegazioni a ciò che ci accade e quando la causa non è chiaramente identificabile lo stato di inquietudine aumenta.

Do la nausea anche a me stesso. Tu e io siamo parte del sistema. Io disegno la scatola e tu ci stai dentro. È come avevi detto, Quentin. Tieni i piedi per terra, non divagare, guarda solo quello che hai davanti agli occhi. Nessuno ha voglia di a capire qual è il disegno. La vita è troppo complicata. Voglio dire: rassegnamoci. La ragione per cui siamo qui ci sfugge totalmente.”

A questo senso di straniamento, dettato dall’assenza di un motivo apparente, si aggiunge la particolare struttura della trappola. All’interno del cubo, infatti, si perde completamente la cognizione spaziale. La presenza di aperture su tutte e sei le facce della stanza ci impedisce di indentificare nettamente ingresso e uscita, così come la struttura cubica ci impedisce di individuare nettamente sopra e sotto, destra e sinistra. Ogni faccia è uguale a sé stessa ed è uno sbocco su una possibile via di fuga o di morte.

Il regista gioca con lo spettatore abbattendo qualsiasi schema cognitivo che gli permetta di identificare ciò che sta vedendo e lo inserisce in una scatola di morte. Se, da un certo punto di vista questo espediente si può identificare con la volontà da parte del regista di aumentare il senso di inquietudine, dall’altra è evidente come il vero scopo dell’opera non sia creare significato ma piuttosto creare un’opera che stia in piedi senza la necessità di specificare il come e il perché. Ciò è dimostrabile dal fatto che i nostri protagonisti scopriranno presto che anche il posizionamento geografico della struttura è indefinito. Il cubo non ha bisogno di un movente o di un luogo per esistere, il cubo esiste in quanto tale ed è, per questo, la trappola per eccellenza.

Un unico riferimento: la matematica

Una volta demoliti i riferimenti spaziali e cognitivi della vicenda, Natali ci da un appiglio a cui aggrapparci: la matematica. È infatti grazie alle abili intuizioni di Joan Leaven, la studentessa di matematica che i nostri protagonisti smettono di lanciare scarponi e iniziano a muoversi seguendo una parvenza di logica.

C’è tuttavia un grosso problema. Per quanto la matematica inserita in Cube abbia delle basi abbastanza solide, in parecchi momenti si rivela una supercazzola pazzesca.

Partiamo dalla questione dei numeri primi. Un numero si definisce primo quando è divisibile unicamente per uno e per sé stesso. 1,2,3,5,7,11,13 sono tutti numeri primi. Fin tanto che i numeri sono piccoli il gioco è semplice, ma quando le cifre aumentano ovviamente diventa molto più difficile individuarli. Fin qui tutto coerente, peccato ci sia una semplicissima regola per capire se un numero è primo o meno a prima vista: l’unico numero pari ad essere primo è il 2, tutti gli altri sono divisibili almeno per 2. Diventa quindi improbabile che una studentessa di matematica si soffermi per più di due secondi a valutare se un numero pari sia primo.

Ovviamente la questione dei numeri primi non poteva reggere l’intero film. Infatti, ad un certo punto i nostri protagonisti si rendono conto che la struttura è un cubo gigante formato da tanti piccoli cubettini e i numeri indicano le coordinate cartesiane lungo gli assi x,y,z.

Ora cercherò di essere chiara e semplice. In una struttura statica (ferma) se io mi trovo nel punto indicato da coordinate (0, 0, 0) e mi muovo in una direzione (supponiamo per semplicità la x) di 1 unità le coordinate della mia nuova posizione saranno (1,0,0). Questo mi permetterebbe facilmente di orientarmi in modo inequivocabile, anche con la presenza di trappole e di radici quadrate. Per questo motivo il regista complica la situazione dicendo che i cubi si muovono secondo permutazioni, con moto che si ripete periodicamente. In matematica si parla di permutazioni per indicare tutti i modi possibili per disporre un gruppo elementi. Facciamo un esempio semplice e prendiamo le lettere ABC. ABC sono tre elementi, e per capire in quanti modi diversi si possano ordinare basta fare il fattoriale di 3: (3!) = 3x2x1 =6 (tenete a mente questo concetto di fattoriale). Quindi avremo ABC ACB BCA BAC CAB CBA. In generale il fattoriale di un numero è:

n! = n x (n-1) x (n-2) … x 1

La ragazza stima che il numero complessivo dei cubi sia 17.576. Quindi ora immaginate di dover calcolare il fattoriale di questo numero. Ancora sicuri che sia possibile orientarsi conoscendo la posizione di soli 7 settori? Io ho i miei dubbi.

Il problema più grosso, tuttavia, non è dettato da queste due assunzioni che, con una buona sospensione dell’incredulità sono facilmente superabili (alla fine stiamo guardando un film non un documentario di matematica pura!). Il problema principale è dettato dall’errata traduzione di factorization in italiano. Fattoriale e fattorizzazione non sono la stessa cosa! La fattorizzazione è, infatti, quella procedura con cui un numero o un oggetto matematico viene suddiviso in fattori. Quando si parla di fattorizzazione in numeri primi significa prendere un numero e scriverlo come se fosse il prodotto dei numeri primi che lo compongono. Un banale esempio renderà tutto più semplice: 15 = 5×3. Poiché 5 e 3 sono numeri primi abbiamo scritto 15 come il prodotto dei suoi numeri primi. 128 = 2x2x2x2x2x2x2 = 27. Come abbiamo già detto 2 è l’unico numero pari ad essere un numero primo e quindi abbiamo scritto 128 come prodotto dei numeri primi che lo compongono. Completamente diverso sarebbe fare il fattoriale di 15 o di 128. 15! = 15x14x13x12…x2x1 = 1.307.674.368.000. 128 non provo nemmeno a scriverlo.

Ora per capire cosa dice Kazan, il rainman della pellicola, diventa importante tradurre correttamente. Se al fattoriale di 15 uno risponde 2, capite bene che c’è un problema che va ben oltre la sospensione dell’incredulità. I numeri che dice Kazan, infatti, sono il numero dei fattori primi che compongono quel determinato numero. Nei nostri esempi avremmo quindi 15 = 2 (3 e 5 sono due numeri primi): via libera. 128 = 1 (è una potenza del numero 2): trappola.

Diciamo che, fortunatamente i nostri protagonisti parlano tutti la stessa lingua!

Le mie considerazioni

Nonostante le supercazzole sopracitate e il fatto che il film abbia degli effetti visivi abbastanza rudimentali in certe scene, ritengo che sia una di quelle pellicole che vadano viste almeno una volta nella vita. Il concetto di una struttura che non abbia necessità di grandi spiegazioni per esistere mi ha colpita positivamente. Soffermarsi a pensare troppo al perché delle cose può portare a profondo straniamento e a perdere di vista quale sia il vero obiettivo delle vicende. Che siano esse appartenenti alla vita reale o ambientate in un mondo distopico, credo che il sotto-messaggio del film sia di cercare degli schemi quando ha un effettivo senso farlo. E nonostante io sia una fanatica dei perché, credo profondamente nella necessità di staccare in certi momenti e ritornare qui e ora. E possibilmente non all’interno di una trappola mortale.

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