I saggi amano l’acqua, i benevoli amano le montagne. Io non sono benevola, io amo il mare.

Decision to Leave è l’ultimo film di quel genio di Park Chan-wook, stranamente snobbato dagli Oscar ma vincitore della miglior regia a Cannes. Diciamolo subito: non è un horror. È un film peculiare che spazia dal giallo, al thriller, al dramma, alla commedia romantica, e lo fa benissimo. Ma, d’altronde, da uno del calibro di Park Chan-wook – già regista della famosa trilogia della vendetta, I’m a Cyborg, But That’s Ok, Thirst, Mademoiselle – non ci aspettiamo che questo.

Trama

Il brillante e forse un po’ maniacale detective Hae-joon (Park Hae-il) inizia a lavorare sul caso di morte di un ufficiale dell’immigrazione, il cui cadavere viene ritrovato ai piedi di una montagna. Anche se parrebbe un suicidio, il detective comincia a sospettare della giovane e bellissima moglie cinese del defunto, Seo-rae (Tang Wei). I conti non tornano per Hae-joon, anche perché l’uomo era violento nei confronti della moglie. L’alibi della donna inizia presto a vacillare e di mezzo si mette l’amore a complicare le cose.

Due personaggi memorabili

Hae-joon e Seo-rae entrano di diritto tra i personaggi iconici della filmografia di Park Chan-wook. Lui, con le tante tasche che si fa aggiungere agli abiti per contenere le cose più inutili, dal balsamo labbra alle mentine, che soffre di insonnia quando non ha un caso intriso di sangue su cui indagare e che ha i suoi metodi poco ortodossi per farlo. Lei, per nulla turbata dalla morte del marito, che usa termini obsoleti perché ha imparato il coreano perlopiù guardando drama storici e che resta sfuggente fino alla fine, ma che è l’unica in grado di far dormire Hae-joon come un sasso. Due personaggi che si muovono tra due città: Busan, città di mare, e Ipo, città industriale avvolta dalla nebbia. A Seo-rae piace il mare, aveva detto, ma il suo animo – e il suo cuore – non possono rimanere lontani dalla nebbia, soprattutto dopo che Hae-joon fa ritorno a Ipo. Soprattutto perché questa è una storia d’amore.

Tra noir e romanticismo

I film di Park Chan-wook sono sempre delle storie d’amore. Ma, secondo il regista, spesso la violenza esplicita e il contenuto sessuale che caratterizzano le sue opere rischiano di oscurare il loro animo più profondo. Per questo motivo, in Decision to Leave l’autore decide di spogliare completamente (o quasi) la storia di questi elementi per creare una poesia visiva e infilarsi in maniera più subdola nella mente degli spettatori. Ed è proprio la tensione tra Seo-rae e Hae-joon, il gioco di attrazione irrazionale contro la razionalità, ciò da cui non ci si riesce a liberare una volta terminato il film. Il mistero che avvolge la morte dell’uomo precipitato dalla montagna (si è buttato o è stato spinto?) si districa facilmente. A metà film, infatti, diventa chiaro il quadro. Il caso viene chiuso ed Hae-joon ritorna alla sua vita di prima – prima dello scombussolamento causato dalla misteriosa donna – e cade in depressione, non riuscendo più nemmeno a dormire. Fino a che Seo-rae non riappare, proponendogli un altro mistero da risolvere.

Barriera linguistica e immigrazione

Decision to Leave affronta anche le questioni dell’immigrazione e della difficoltà di integrarsi. La Corea è tradizionalmente un paese chiuso, poco permeabile, in cui ottenere visti lavorativi è molto difficile, per non parlare della cittadinanza. La lingua diventa un discriminante importante, e Seo-rae, essendo cinese, parla un coreano “strano”. Sgangherato, per alcuni, ma raffinato e d’altri tempi, una caratteristica che contribuisce al fascino e alla complessità del personaggio. Seo-rae ha però un nonno coreano, come se la cosa legittimasse la sua presenza in Corea, e addirittura una montagna tutta sua lì, secondo le parole della madre. Un altro elemento interessante e criptico, dato che Seo-rae non ama la montagna, che diventa simbolo di un legame, di un’appartenenza, come a dire: “ho bisogno di stare qui, ho il diritto di stare qui, anche se non è ciò che vorrei”. Altro elemento che la lega, quasi imprigiona, è senza dubbio il matrimonio con il defunto, uomo che si occupava proprio di rimandare a casa gli immigrati.

Che tutto ciò che ha fatto (e che fa) fossero meccanismi di sopravvivenza? La paura di essere mandati via, di vivere una vita invisibile, diventano un’esperienza ingiudicabile dal di fuori. E infatti Park Chan-wook non esprime giudizi.

Per parlare del finale, seguiranno spoiler. Se avete letto fin qui senza aver visto Decision to Leave, andate al cinema. Al di là delle interpretazioni che ho provato a dare, è un’esperienza cinematografica mozzafiato, in cui ogni elemento è al proprio posto, dalla colonna sonora alle ambientazioni, e in cui ogni inquadratura è un colpo al cuore. Si tratta di un mix di generi atipico in cui non manca anche un pizzico di bizzarro umorismo, una storia da assaporare e da cui lasciarsi rapire.

Allarme spoiler!

L’amore tra i due protagonisti è un amore impossibile, perché Seo-rae è una criminale e Hae-joon un difensore della legge. Un amore così potente che nel momento in cui Hae-joon pronuncia i suoi sentimenti a voce alta questi spariscono, non in grado di sopravvivere all’immiserimento che le parole, il vocabolario umano, provocano. Ma quando l’amore di Hae-joon si consuma, quello di Seo-rae nasce e lei corre da lui a Ipo, tra la nebbia, per offrirgli o, meglio, offrirsi, come nuovo mistero. Hae-joon è l’unico che è stato in grado di vederla, di tirarla fuori dalla sua condizione di invisibilità. Condizione alla quale lei ritorna, fiduciosa nel fatto che Hae-joon sarà nuovamente in grado di vederla. Il suicidio di Seo-rae, che scava una buca nella sabbia e attende che la marea la soffochi e seppellisca, diventa non solo simbolo del suo pentimento (e della punizione che, nella sua ottica, merita), ma anche e soprattutto del suo amore e della sua liberazione. È l’annientamento tanto agognato, quella libertà che solo il mare poteva offrirle.

Classificazione: 5 su 5.