Vincitore del premio alla miglior regia durante la 54esima edizione del Festival di Cannes, Mulholland Drive è un film che può definirsi iconico. Entrato a tutti gli effetti nella cultura cinematografica è la dichiarazione d’amore di Lynch alla settima arte.

Trama

Betty è una giovane e promettente attrice in cerca di fortuna nella conturbante Los Angeles. Al suo arrivo la sua vita sarà sconvolta dalla comparsa di Rita, una misteriosa ragazza reduce da un incidente in cui ha perso la memoria e la sua identità.

Recensione

Mulholland Drive è una pellicola che, fin dalla sua uscita, ha suscitato la curiosità dei più nella ricerca di una soluzione possibile del mistero, di una visione univoca della narrazione. Curiosità che venne alimentata dallo stesso regista, fornendo agli spettatori dieci indizi per poter interpretare il film [1]. Pertanto, questa non vuole essere una ricerca della verità. Non è mia intenzione risolvere il mistero sviluppato nella trama, ma fornire un’analisi personale di uno dei più bei film di David Lynch.

L’ironia del falso

Mulholland Drive è un film che, prima di tutto, parla di cinema, a partire dalla stessa trama. La vicenda, infatti, ruota interamente attorno alla figura dell’attrice. Betty è un’aspirante attrice alle prime armi dalle doti strabilianti. Diane, suo alter ego, è invece un’attricetta dalle scarse capacità ma amica di una grande Diva, la scintillante Camilla Rhodes. Le dinamiche cinematografiche si rendono manifeste, sia quelle tra gli stessi attori che quelle tra le varie figure addette ai lavori. Tuttavia, sarebbe banale e quanto mai superficiale fermarsi a questa prima analisi. Vi è infatti un dettaglio, all’interno della pellicola, che ci consente di capire in modo inequivocabile quanto il ruolo dell’attrice non venga analizzato solo all’interno dell’ambiente cinematografico, ma anche come critica al falso.

Il titolo del film girato da Adam Kesher è “The Sylvia North Story”. Diverse sono state le interpretazioni di tale rimando, al quale lo stesso regista aveva suggerito di far attenzione. Dalla mitologia all’etimologia del nome Sylvia, diverse sono state le teorie e le speculazioni. Tuttavia, esiste un racconto pubblicato nel luglio del 1923 sul Munsey’s Magazine [2] il cui titolo probabilmente vi ricorderà qualcosa:

Il racconto di Jack Whitman pubblicato sul Munsey’s Magazine nel luglio del 1923

La trama è molto semplice, e allo stesso tempo molto familiare. Una ragazza arriva ad Hollywood per cercare di far fortuna. Tuttavia, una volta arrivata nella grande città, le possibilità di una carriera cinematografica sfumano, e si ritrova invischiata in un equivoco fatto di menzogne al fine di ricreare altre menzogne. Il cowboy che incontrerà, infatti, non è un vero cowboy come le aveva raccontato, così come lei non è una vera “western girl” come si era descritta al fine di ottenere la parte. La recitazione, pertanto, trascende la teatralità, diventando parte integrante della vita di tutti i giorni. E, così, Naomi Watts e Laura Harring non sono altro che attrici che interpretano delle attrici che, a loro volta interpretano dei ruoli all’interno di un film che parla di un’attrice che mente sulla propria identità al fine di poter fare l’attrice.

“Sarà come nei film, fingeremo di essere qualcun altro”.

Il sogno Hollywoodiano e la nostalgia per il divismo degli anni ‘50

Mulholland Drive, tuttavia, non è solo un film che parla di cinema fine a sé stesso. È, ancor più, una pellicola che tratta, anche, della storia del cinema, e soprattutto di una certa epoca cinematografica, ormai passata. Innumerevoli, infatti, sono i riferimenti al cinema degli anni ’50 nel corso del film. Dalla scena iniziale su sfondo viola in cui alcune figure ballano a ritmo di Rock’N roll, al provino per la parte che sarà interpretata da Camilla Rhodes in “The Sylvia North Story” di Adam Kesher.

Il regista gioca con i nomi delle protagoniste, facendo evidenti rimandi alle Dive degli anni ’50. Se il riferimento a Rita Hayworth è quanto mai esplicito, più sottile è quello legato al nome di Betty. Betty è infatti il nome del personaggio interpretato dall’iconica Nancy Olson nella pellicola Sunset Boulevard – Viale del tramonto del 1950. Ancor più, il Winkie’s, la tavola calda fulcro dell’intera vicenda, è situata proprio in Sunset Boulevard. “Volevo venire proprio qui, in questo Winkie’s […] perché ho fatto un sogno che riguarda questo posto” ci dice Dan (Patrick Fischler). Non è un caso, infatti, che questo capolavoro senza tempo sia uno dei film preferiti dal regista [3]. L’analogia tra i due film diventa, a questo punto, lampante. Entrambi fanno riferimento a una nota strada di Los Angeles ed entrambi guardano in maniera nostalgica ad un’epoca passata rispetto a quella in cui è ambientato il film, cercando di svelare crudeltà, zone d’ombra ed esaltazione della finzione.  

Finzione cinematografica e destrutturazione onirica

In Mulholland drive finzione cinematografica e destrutturazione onirica si mescolano, coadiuvandosi alla creazione di una realtà altra, parallela. Una volta arrivati nella parte finale del film, ci rendiamo conto di come Diane abbia rielaborato la sua realtà, creandone una alternativa sulla base dei suoi desideri e delle sue paranoie. Desideri e paranoie provvisti di una potenza tale da riuscire ad esternalizzarsi. Come in un sogno, Diane mescola le carte in tavola, attribuendo ai visi delle persone nomi ed identità differenti. Camilla diventa Rita, mutando non solo nel nome ma anche nella personalità. Tanto egoista e sicura nel ruolo di Camilla, tanto innamorata e dipendente nel ruolo di Rita. Anche la stessa Diane cambia nome e personalità, riversando nella sua realtà ideale tutti i desideri e le ambizioni del suo presente paranoide. È in questo sottile meccanismo che cinema e sogno si mescolano, diventando un tutt’uno. Come nel cinema un attore può interpretare diversi personaggi e quindi vivere diverse vite, così nel sogno le persone diventano ciò che vogliono essere o ciò che vogliamo che siano.

La finzione, ma soprattutto la percezione della finzione, non hanno alcun potere dissuasivo. Questo aspetto diventa incontrovertibile nella scena del Club Silencio. “No hay banda” dice il presentatore dall’aspetto mefistofelico “non c’è banda”. La consapevolezza di non assistere a uno spettacolo dal vivo non impedisce a Betty e Rita di emozionarsi e immedesimarsi nel dolore cantato da Rebekah Del Rio. Esattamente come le emozioni che provano le due ragazze, così le emozioni provate attraverso il cinema non sono meno reali di quelle di una ipotetica realtà oggettiva, e non sono meno reali di quelle che è possibile provare in un sogno. Rabbia, dolore, frustrazione, piacere, sono emozioni che la nostra mente ricrea durante il lavoro onirico e che ci sconvolgono e stravolgono al punto da portarci a provarle anche dopo esserci svegliati. Allo stesso modo, il cinema ha il potere di provocare emozioni reali, nonostante lo spettatore sia a conoscenza della finzione di ciò che sta guardando.

L’identificazione è tanto nelle emozioni, quanto nell’identità dell’altro. Rita e Betty hanno movimenti spesso speculari. Diane cerca di ricreare Rita, adattandola non solo ai suoi personali desideri, ma anche alla sua stessa identità. Diane ricrea Rita a sua immagine e somiglianza. Questo processo avviene anche attraverso una vera e propria metamorfosi fisica che si conclude con la sovrapposizione delle due nel momento in cui il cubo viene aperto, ed è “tempo di svegliarsi”.

Realtà oggettiva o incubo paranoide?

È, infine, lecito domandarsi quanto la parte finale sia oggettivamente la realtà di Diane o se non sia semplicemente un incubo. Nell’interpretazione più accreditata, infatti, il film è diviso in due sequenze, di cui la prima è il sogno in cui Diane riversa tutti i suoi desideri e le sue ambizioni, mentre la seconda parte è la narrazione della realtà di Diane. Vi sono tuttavia diversi elementi che ci consentono di ipotizzare che la realtà rappresentata nella seconda parte del film non sia oggettivamente valida, ma una visione quantomeno distorta, frutto delle paranoie della stessa Diane. La cattiveria gratuita di Camilla, la quale in più occasioni si appresta a far ingelosire l’amante con comportamenti quantomeno bizzarri, l’inadeguatezza di Diane che permea soprattutto nella scena della cena, nonché la scena finale in cui sono presenti sia i due anziani signori che la figura ricoperta di fango, sono segni evidenti di una rappresentazione della realtà alterata dalle psicosi della stessa Diane.

Entrambe le sequenze presentano elementi tipici di una rielaborazione mentale.  Non è, quindi, errato supporre che la prima e la seconda sequenza non siano altro che frutto di una realtà onirica avente prima le caratteristiche di un sogno e poi quelle di un incubo. Pertanto, in questo continuum, non ci resta altro che immedesimarci, a nostra volta, nelle vicende, nelle emozioni e nelle paranoie delle nostre protagoniste, coscienti di assistere a una finzione, ma non per questo meno reale. Quindi, “Silencio” e lasciatevi travolgere dalla storia di un incidente in Mulholland Drive.

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