A dieci anni dal suo film d’esordio Moon Is… the Sun’s Dream (Dar-eun… haega kkuneun kkum), Park Chan-wook tornava al cinema con il primo capitolo della sua trilogia della vendetta: Sympathy for Mr. Vengeance (Boksuneun naui geot), in italiano conosciuto semplicemente come Mr. Vendetta. Un film che dà il là a una riflessione multisfaccettata su uno degli istinti più subdoli e allo stesso tempo più autentici della natura umana.

Trama

Ryu (Shin Ha-kyun) è un ragazzo sordo-muto che lavora in una fabbrica come saldatore. Ha una sorella (Lim Ji-Eun) gravemente malata, la quale necessita di un trapianto di rene per poter sopravvivere. Poiché le liste d’attesa sembrano estremamente lunghe, Ryu decide di rivolgersi al mercato nero degli organi ma viene truffato, rimanendo senza un rene e senza i soldi necessari per pagare l’intervento a sua sorella. Quando finalmente arriva un donatore compatibile, Ryu non avrà più modo di poter affrontare l’intervento e quindi decide di architettare, con la vicina di casa ed amica, il rapimento della figlia del suo datore di lavoro. Questa decisione dare il via a una serie di sfortunati quanto crudeli eventi.

Recensione

C’è veramente tanto da dire su Mr. Vendetta. Il film è infatti caratterizzato dalla presenza di riferimenti storico-culturali molto evidenti, i quali fanno da sfondo all’intera vicenda. La forte differenza tra classi sociali, il conflitto tra capitalismo occidentale e comunismo della vicina Corea del Nord, il traffico di organi illegale. Sono tutte tematiche che abbiamo visto riprendere nella fortunatissima serie Netflix Squid Game e che, oggi, ci paiono più note di quanto non lo fossero nel 2002, anno di uscita del film.

La situazione storica

Mr. Vendetta fa parte del cosiddetto filone degli Asian Extreme, film prodotti in Giappone , Sud Corea, Hong Kong e Thailandia, in cui attraverso l’utilizzo della violenza estrema vengono descritte e analizzate le situazioni e i problemi sociali di queste diverse nazioni.

La vicenda narrata all’interno della pellicola è contemporanea alla data di uscita della stessa nelle sale. Siamo nei primi anni 2000, gli anni in cui la musica K-pop si diffonde a livello globale [1], ma sono anche gli anni successivi a una delle crisi economiche più destabilizzanti per il continente asiatico. Subito dopo la guerra di Corea (1950-1953), la Corea del Sud era riuscita a realizzare una strategia di crescita economica che le aveva permesso di incrementare di otto volte il reddito pro capite in tre decenni [2]. Tuttavia, il forte indebitamento delle imprese coreane con creditori esteri aveva portato al fallimento di due delle maggiori conglomerate del paese: la Hanbo Steel e la Sammi Steel. In particolare, la Hanbo Steel fu coinvolta in uno scandalo di corruzione [3] che portò con sé il fallimento di altre grandi conglomerate del Paese, tra cui anche Kia Motors e Daewoo. In questa situazione di forte precarietà economica, la differenza tra la classe ricca e quella povera si fece più evidente e insormontabile. Il fulcro dell’intera vicenda si basa, infatti, sulla disperazione di persone meno abbienti.

“Perché l’amico di papà è così povero?”

“Perché per curare la mia malattia abbiamo speso tutti i soldi che avevamo”.

chiede la piccola alla sorella di Ryu

Anche la lotta tra capitalismo e comunismo che ha caratterizzato il territorio coreano è introdotta all’interno della pellicola senza diventare prevaricante. Sentiamo la vicina di casa Cha Yeong-mi cantare una canzone sulla lotta al comunismo e poi fare propaganda contro il capitalismo americano. Vediamo, inoltre, inquadrata in modo non proprio casuale il marchio Converse (uno dei simboli della moda americana) sulla tuta di uno dei trafficanti di organi. Non possiamo prescindere, nella nostra analisi, il fatto che l’estremo capitalismo della Corea del Sud, nato in risposta al regime comunista della Corea del Nord, abbia acuito le differenze sociali presenti nel paese con capitale Seul.

Il marchio Converse sulla tuta del trafficante di organi

La vendetta che riduce le diversità sociali

Questa breve e concisa introduzione alla situazione storica in cui è ambientata la pellicola è stata fatta per un motivo ben preciso. In questo primo capitolo della trilogia abbiamo due percorsi di vendetta che si intrecciano e si inseguono. Da una parte abbiamo la figura di un fratello (povero) desideroso di vendicarsi della situazione in cui si è trovato e della sua perdita. Dall’altra abbiamo un padre (ricco) che vuole vendicare sua figlia. Povertà e ricchezza finiscono in secondo piano quando un sentimento tanto deprecabile quanto umano come la vendetta si annida nei loro cuori. Povero e ricco, fratello e padre, si ritrovano riportati sullo stesso livello sociale diventando unicamente due persone. La vendetta diventa così mezzo per appianare la disparità sociale. Ma è, altresì, fine insuperabile.

“Vorrei perdonarti ma non posso farlo”.

dice Park Dong-jin a Ryu

L’unico mezzo per affrontare un dolore nel mondo descritto da Park Chan-Wook è vendicarlo. Non c’è spazio per i buoni sentimenti, per ipocriti sentimentalismi dietro cui cerchiamo di nasconderci per dimostrare al mondo e a noi stessi che non siamo cattive persone. Park Chan-wook prende il desiderio di vendetta e lo accetta come caratteristica connotativa della specie umana.  Tuttavia, come dichiarato dallo stesso regista, la vendetta, per quanto insita nell’animo umano, è bella solo quando viene immaginata [4]. Ogni atto di violenza viene visto da Park come un atto estremamente stupido, ma funzionale alla salute mentale, purché resti relegato alla sola immaginazione. I suoi film sono questo, aiutano lo spettatore a vivere la vendetta che non potrebbero mettere in atto nel mondo reale, ma anche a rendersi conto della sua inutilità.

Stimolare lo spettatore

Come dichiarato al New York Times [5] Park cerca di stimolare il suo spettatore tipo. Genera in esso sentimenti controversi introducendo, spesso, elementi del grottesco. Come il ragazzo fortemente disabile che cercherà di avvisare Ryu della tragedia imminente. Il nostro riso viene soffocato quando ci rendiamo conto di quello che sta accadendo. Ci accompagna in questa altalena di sensazioni che pervaderanno tutta la trilogia della vendetta. In questo modo il regista smorza la nostra immedesimazione nelle vicende dei protagonisti. Ci permette di avvicinarci appena al desiderio di vendetta, di sentirlo sotto la pelle, ma si ferma prima che esso esploda. Ci manipola a suo piacimento ma lo fa per il nostro bene. La vendetta deve rimanere qualcosa che è solo nella nostra testa.

“In my films, I focus on pain and fear,” he said. “The fear just before an act of violence and the pain after. This applies to the perpetrators as well as the victims.”

Park Chan-wook

La regia

Come già anticipato il regista ci pone come spettatori dell’intera vicenda. Non ci viene mai permesso di percepire il silenzio che caratterizza la vita di Ryu, anzi, proprio all’inizio della pellicola la sua storia viene raccontata da una voce narrante femminile. La regia è perfetta, priva di virtuosismi inutili ma colma di significato. Si adatta perfettamente all’avanzare della vicenda e ai sentimenti dei protagonisti. Lo percepiamo in quel gioco di prospettiva di escheriano rimando in cui Ryu sale le scale per recarsi dai trafficanti di organi, come nell’ondeggiare della macchina da presa quando segue la rabbia del padre Park Dong-jin.

La sequenza di escheliana memoria pt.1
La sequenza di escheliana memoria pt.2
La sequenza di escheliana memoria pt.3

C’è un forte gioco cromatico che accompagna l’intero film. Il colore di capelli di Ryu diventa più o meno a contrasto o in sincronia con l’ambiente circostante in base alla situazione. Lo camuffa all’interno dell’azienda in cui il verde della fotografia si mischia al verde dei suoi capelli rendendolo una parte integrante della stessa, una figura invisibile. Allo stesso modo diventa più freddo e simile all’ambiente circostante nella scena lungo il fiume. Nonostante ciò, è ancora acerba e si stabilizzerà nell’ultimo capitolo di questa splendida trilogia – Symphaty for Lady Vengeance, esplodendo completamente nell’ultima pellicola del regista, The Handmaiden – Mademoiselle.

I capelli di Ryu cromaticamente abbinati alla luce della fabbrica
I capelli di Ryu in tinta con l’ambiente circostante

Le mie considerazioni

Nonostante questo sia il capitolo che meno mi ha colpita dell’intera trilogia, non posso negare quanto sia splendido nell’intento. L’idea che la vendetta sia un sentimento così insito nell’animo umano da appianare le differenze sociali mi affascina in maniera totalizzante. Dinnanzi al dolore, infatti, il capitalismo crolla e torniamo al nostro stato naturale di esseri umani. Ricco o povero, giovane o vecchio, uomo o donna, tutti noi abbiamo desiderato, almeno una volta nella vita, di poter dare sfogo alle nostre pulsioni, ma non lo abbiamo fatto. E questo perché, come dice il regista, la vendetta è inutile e stupida ed è funzionale solo quando contenuta e sigillata all’interno della nostra mente. Un’altra cosa che adoro dei film di Park Chan-wook è questa capacità di far provare allo spettatore un’altalena di sensazioni. Dal riso, alla rabbia, al dolore, tutto lo scibile dei sentimenti umani viene rappresentato e analizzato. Park ci porta all’estremo, ci spinge a provare rabbia e poi la smorza, sapendo sempre quale è il limite invalicabile. Insomma, un regista da cui possiamo apprendere tanto e che ogni volta alza l’asticella sia a livello concettuale che stilistico. Un vero imperdibile.

Classificazione: 4 su 5.

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