È finalmente arrivato al cinema uno degli horror più chiacchierati del momento, già definito il più spaventoso dell’anno: si tratta di Talk to me, primo lungometraggio degli australiani Danny e Michael Philippou, distribuito in Italia da Midnight Factory.

Diciamolo da subito: Talk to me è un esordio fulminante che dimostra la capacità dei fratelli emergenti non solo nella regia, ma anche di unire il teen horror alle tematiche da cosiddetto “elevated horror”. Il risultato è un film angosciante che fila liscio per tutta la sua durata – circa 90 minuti – che spaventa, senza il ricorso a jumpscares, e che sa anche commuovere.

Trama

Mia (Sophie Wilde) è un’adolescente che ha da poco perso la madre e per combattere la solitudine cerca di farsi accettare nella cerchia dei cool kids. Quando un “gioco” diventa virale, Mia decide quindi di sperimentarlo e si reca ad un festino con l’amica Jade (Alexandra Jensen) e il fratellino di quest’ultima Riley (Joe Bird). Per giocare bisogna stringere una mano imbalsamata, che leggenda vuole appartenesse ad una medium, e pronunciare le parole “parla con me”: l’oggetto, che funziona come una tavola ouija, permetterà così al giocatore di parlare con uno spirito. Inoltre, se ci si vuole spingere più in là e provare il pacchetto completo, il giocatore può invitare lo spirito dentro di sé per sperimentare una vera e propria possessione. Il contatto con i morti non può superare però i 90 secondi: quando Mia supera il limite, inizia ad essere perseguitata da visioni raccapriccianti, perdendo sempre di più il contatto con la realtà.

Tra vecchie e nuove icone

Il cinema horror straripa di oggetti maledetti e medium per stabilire un contatto con l’aldilà; la mano di Talk to me, ricoperta di scritte (come graffiti o i disegnini che gli amici ti fanno sul gesso quando ti rompi un braccio) e dalla provenienza incerta, si aggiudica sicuramente un posto sullo scaffale dei collezionisti. Questa nuova icona vale già da sola un punto di originalità al film, che dimostra di essere innovativo anche nello sviluppo del tema, trito e ritrito, della “seduta spiritica andata male”.

Mi spiego meglio: non c’è un particolare stravolgimento, quindi non vi aspettate un plot twist scioccante. Anzi, credo che un plot twist non ci sia perché lo svolgimento è già scritto fin dalla primissima scena. Ciò che accade a metà film – una scena anche parecchio gore – può destabilizzare, ma è parte del corso naturale della storia e coerente con il carattere della protagonista. Talk to me è un film lineare, nel senso che tutte le scelte dell’(anti)eroina sono prevedibili, ma non perché c’è pigrizia nella scrittura, bensì perché erano le uniche possibili per il messaggio che i registi volevano veicolare. Mia appare egoista e imprudente, come qualsiasi adolescente sofferente; non è di certo la final girl canonica, ma è umana e complessa, e non possiamo fare a meno di comprenderla in ogni cosa che fa – o che non fa. Infatti Talk to me si regge sui non detti, su “atti mancati”, decisioni non prese. Anche il finale non fornisce spiegazioni ma è volutamente ambiguo, lasciando a noi spettatori la libertà di interpretarlo in un modo o in un altro, a seconda di ciò che vogliamo per Mia. Anche se, secondo me, se si è seguita l’evoluzione (che non può chiamarsi così) della protagonista, il finale non può che essere uno solo. In questo Talk to me è innovativo, perché porta avanti un discorso coerente senza cercare lo sconvolgimento a tutti i costi, ma lasciando attoniti proprio per questa linearità che non offre via di scampo.

Le ispirazioni

Talk to me è fortemente influenzato dal teen horror anni ‘90, ma rinvia anche da cult come Candyman e Nightmare. Dal primo riprende il topos della leggenda urbana e la figura dell’anti-eroina protagonista, dal secondo il ritratto di un’adolescenza abbandonata alle prese con un mondo adulto assente e/o indifferente. Gli adolescenti rappresentatati in Talk to me, infatti, sono in lotta contro la solitudine mentre il mondo adulto, se non completamente assente, è percepito come distante e ostile. Il papà di Mia, cui lei attribuisce la colpa della morte della madre, è visto come un bugiardo, quasi un nemico, mentre la mamma di Jade e Riley (una sempre bravissima Miranda Otto) è sospettosa e opprimente. E i giovani, messi in scena fin da subito con i cellulari perennemente tra le mani per guardare e non rimanere indietro, sono alla costante ricerca del brivido per non pensare e, come nel caso di Mia, per evitare di affrontare il dolore.

Si sente Wes Craven, si sente Clive Barker, ma Talk to me si nutre anche di ispirazioni più recenti come il Babadook di Jennifer Kent e i drammi interiori e familiari di Ari Aster. La possessione come metafora di solitudine e abbandono tipici dell’adolescenza riprende anche il Veronica di Paco Plaza, ma qui se ne parla anche come se fosse una dipendenza, in maniera molto delicata e intelligente, senza mai fare la morale o risultare antipatico. Il film è infatti indirizzato proprio agli adolescenti, ma pare che in Italia non l’abbiano capito dato il divieto ai minori di 18 anni.

Conclusioni

Talk to me, in conclusione, tratta del dolore e dell’impossibilità di affrontarlo in maniera sana. È significativo che il titolo sia proprio “parla con me”, la frase che si ripete come un mantra per entrare in contatto con un altro mondo quando poi, nel mondo reale, non si riesce a comunicare. Mia è rimasta aggrappata al passato, al suo lutto, finendo per isolarsi e allontanare chi è rimasto nella sua vita, spingendosi a – quasi letteralmente – sacrificare chi le mostra del sincero affetto pur di rimanere ancorata al suo dolore. Per questo, per lei, non c’è evoluzione né via di fuga.

Classificazione: 4.5 su 5.