American Horror Story: NYC, disponibile interamente su Disney +, ci riconduce ai fasti della serie tv ideata da Murphy e Falchuk, raccontandoci in modo inedito e originale uno dei capitoli più tragici della storia statunitense (e non solo).

Attenzione: il seguente articolo contiene SPOILER sull’undicesima stagione di American Horror Story

Con AHS: NYC, dopo la reazione poco entusiasta del pubblico alla scelta adottata in AHS: Double Feature (QUI la recensione) che prevedeva due narrazioni totalmente diverse all’interno della stessa stagione, Murphy e Falchuk hanno deciso di ritornare a un “format” più classico, concentrando questa undicesima stagione su un’unica storia e un unico tema. Ma quale storia racconta AHS: NYC? Qual è il tema centrale della stagione? Al centro di tutto c’è l’omosessualità nell’America degli anni ’80, con tutta l’intolleranza, l’odio, l’omofobia di quegli anni. E, inoltre, al centro c’è l’epidemia di AIDS che in quegli stessi anni avrebbe finito per devastare il mondo intero e a cui l’intolleranza, l’odio e l’omofobia sono strettamente correlati.

American Noir Story

A spiazzare i fan della serie è stata la direzione che Murphy e Falchuk hanno deciso di prendere in AHS: NYC. Cosa accomuna questa stagione alle precedenti? Perché questo cambio di rotta dopo 10 stagioni? American Horror Story: NYC, insieme a Cult, è l’unica stagione in cui non compaiono elementi sovrannaturali. Ma se il gore e la violenza psicologica trasformavano AHS: Cult in un perfetto ritratto orrorifico dell’America reazionaria di Trump, in NYC ci troviamo di fronte a qualcosa di totalmente diverso, qualcosa che lascia scivolare la componente horror da una parte, riprendendola solo saltuariamente, a favore di altri due generi: il thriller e il noir.

Anche a livello estetico e fotografico AHS: NYC sembra richiamare quasi ossessivamente i capolavori noir degli anni ‘70/80: i volti contrastati dei personaggi, la lotta continua tra luce e oscurità, gli ambienti bui in cui luci di taglio sembrano coltelli che calano sopra la notte, sono tutti elementi che ritroviamo nel genere noir e che questo aveva a sua volta ereditato dall’espressionismo tedesco. Anche a livello narrativo, inoltre, possiamo parlare di una vera e propria American Noir Story: non ci sono personaggi manichei, non c’è un buono e non c’è un cattivo, ma ci sono esseri umani che si muovono tra la luce e l’oscurità e che affrontano continuamente impossibili lotte interiori che finiscono per lacerarli ancora di più, tanto da renderli indefinibili.

“Un ritratto camp di un passato oscuro”

Allora perché – come si sono chiesti in molti – raccontare questa storia in una stagione di American Horror Story? Perché non creare una miniserie a parte? A queste domande si può facilmente dare una risposta analizzando il fil rouge che più di tutti lega le varie stagioni della serie. Nel mio primo articolo dedicato ad American Horror Story ho definito la serie come il “ritratto camp di un passato oscuro” (QUI l’articolo completo) perché questa frase è a parer mio perfetta per indicare brevemente gli “intenti” estetici e narrativi di AHS. In tutte le stagioni, infatti, il motore narrativo è, freudianamente parlando, il ritorno del rimossoovvero il ritorno del passato statunitense, oscuro e osceno, che la memoria collettiva ha tentato (inutilmente) di cancellare perché fondamentalmente inaccettabile.

È proprio il ritorno improvviso di questo passato, la sua riemersione, a costituire l’orrore che i protagonisti devono fronteggiare in ogni stagione. E se, come fermamente sostengo, è questo il fil rouge di American Horror Story, allora AHS: NYC è una stagione che perfettamente si sposa alla serie, una stagione capace di raccontare gli orrori di un passato che si tenta in ogni modo di dimenticare.

Des Unheimlich, il perturbante

Des Unheimlich. Così si chiamava il saggio scritto da Freud nel 1919 per indagare il concetto di “perturbante”, ovvero qualcosa che è familiare ed estraneo allo stesso tempo, qualcosa che doveva rimanere segreto, confinato nell’intimità delle mura domestiche, ma che invece è riaffiorato, qualcosa capace di suscitare angoscia e inquietudine nonostante la sua parziale natura di familiarità. Anche il perturbante è un motivo ricorrente in American Horror Story e si presenta, nel corso delle varie stagioni, in diverse forme, alcune delle quali teorizzate anche da Freud nel suo saggio.

Il perturbante, quindi, attraversa tutte (o quasi) le stagioni di AHS e lo fa proprio in relazione a quel passato oscuro di cui parlavamo prima. La funzione della serie, da questo punto di vista, sarebbe quella di permettere allo spettatore americano di simbolizzare, attraverso l’arte, quel passato inaccettabile che lui stesso ha tentato di rimuovere. Lo stesso Freud, infatti, sosteneva che il perturbante, quando applicato all’arte, permettesse una sorta di “apertura” con un effetto che definirei quasi catartico.

Big Daddy

Il perturbante emerge in AHS: NYC attraverso le figure dei due killer: Big Daddy e il Mai-Tai Killer. Ricordiamo fin da subito che Big Daddy non è davvero una persona, ma una sorta di incarnazione dell’epidemia di AIDS, una figura che consente di raccontare tale epidemia metaforicamente come una serie di efferati omicidi. In che modo Big Daddy è legato al perturbante?

A pensarci bene Big Daddy incarna una figura che è allo stesso tempo estranea e familiare: è familiare in quanto volto noto alla comunità LGBTQ+ newyorkese (come dimostrano gli scatti fotografici di Theo Graves che Adam vede esposti nella sauna) ma allo stesso tempo è qualcosa di estraneo, in quanto ci viene fin da subito rivelato da Sam (Zachary Quinto) che il vero Big Daddy è morto anni prima. Il Big Daddy allucinatorio, ipostasi dell’AIDS, ha un legame stretto con la morte e con ciò che è spettrale e, di conseguenza, è estraneo al mondo dei vivi. 

Big Daddy è una sorta di allucinazione di massa che nasconde il Reale traumatico, in senso lacaniano, dell’epidemia di AIDS, ed è allo stesso tempo il rimosso che torna in forma di allucinazione perché, come ci insegna Freud, tutto ciò che è stato rimosso è destinato a tornare dall’inconscio, in cui è stato segregato, in un’altra forma.

Il Mai-Tai Killer

Il Mai-Tai Killer, invece, rappresenta un’altra cifra del perturbante. In realtà lui, di per sé, non ha niente a che fare con questo concetto, ma la sua creatura sì. L’uomo, infatti, utilizza parti del corpo delle sue vittime per creare una creatura perfetta che richiama inevitabilmente quella del dottor Frankenstein. Ed è proprio questa creatura a incarnare il perturbante, lo stesso perturbante che Freud rintraccia nelle opere di Hoffman in cui troviamo figure inumane che non si capisce se siano vive o morte. Un altro tipo di perturbante, quindi, rispetto a quello incarnato da Big Daddy, ma altrettanto inquietante e spaventoso. Cosa c’è, inoltre, di più perturbante di una creatura estranea creata attraverso le parti del corpo di persone “familiari”?

I personaggi di AHS: NYC

I protagonisti di questa stagione sono indubbiamente Adam (Charlie Carver) e Gino Barelli (Joe Mantello). Ad emergere in modo più significativo è proprio quest’ultimo: grazie a una magistrale interpretazione, Mantello riesce a mettere in scena perfettamente ogni sfumatura del complesso personaggio di Gino, lacerato tra l’amore per Patrick (Russell Tovey) e l’impossibilità endemica della serenità di tale amore, tra la lotta per per i diritti e i continui abusi, da parte delle autorità stesse, verso la comunità gay.

Isaac Cole Powell interpreta un talentuoso fotografo – succube di Sam (Zachary Quinto), ma capace di fuggire al proprio carnefice per trovare il vero amore (Adam) – con la capacità di “profetizzare” per primo l’arrivo di qualcosa di distruttivo (il ragazzo afferma più volte di essere un sensitivo come sua nonna). Del già citato Sam (Zachary Quinto) viene invece messo in primo piano il tratto perverso, sia dal punto di vista puramente sessuale, sia da quello più psicanalitico e lacaniano che emerge nel sua rapporto con Theo Graves (Isaac Cole Powell).

Patrick, compagno di Gino, è un altro personaggio lacerato: il suo amore per Gino si scontra inevitabilmente con l’incapacità di vivere serenamente la propria sessualità e con la sua tendenza continua a mentire a chiunque. E sono state proprio le bugie di Patrick a distruggere la fragile Barbara (Leslie Grossman), l’ex moglie dell’uomo ed eterna sua innamorata. Un plauso anche ai personaggi interpretati da Denis O’Hare e Patti LuPone, enigmatici e affascinanti.

Una condanna all’omofobia

Mentre in altre stagione di American Horror Story, la critica sociale era più velata, in questa stagione Ryan Murphy, appartenente alla comunità LGBTQ+, si scaglia apertamente contro l’intolleranza e soprattutto l’indifferenza di quegli anni. Era una critica che il regista aveva già mosso in American Crime Story: L’assassinio di Gianni Versace (QUI l’articolo), ma che in NYC viene elevata al quadrato. La diffusa omofobia di quegli anni è stata causa di tanti delitti rimasti impuniti e complice dello sterminio causato dall’AIDS. Tutto ciò viene messo in scena esplicitamente in NYC: nessuno indaga sul Mai-Tai Killer perché le sue sono considerate vittime di serie B.

“Queste persone vengono qui per perdersi e poi finiscono per ottenere ciò che volevano”, afferma sprezzante un poliziotto. Gino, Patrick, Adam e Henry (Denis O’Hare) riescono a fermare da soli il Mai-Tai Killer, perché sanno che la giustizia non correrà in loro aiuto. Ma non possono fare niente di fronte all’epidemia di AIDS che li condannerà quasi tutti alla morte. Anche l’AIDS, inizialmente, causerà solo indifferenza e ulteriore odio nei confronti della comunità gay: una malattia mandata direttamente da Dio per punire la perversione di tale comunità. La storia stessa racconta di un’epidemia che per anni era vista come un segno della giustizia divina e che talvolta passava addirittura inosservata perché mieteva persone di cui non importava niente a nessuno.

È questa la storia oscura e oscena del passato statunitense, è questo ciò che è stato rimosso attraverso un esasperato politicamente corretto che in un certo senso vorrebbe suturare le ferite del passato e nasconderne le cicatrici. È questo il passato che riaffiora tormentando i protagonisti di American Horror Story e gli spettatori stessi.

L’onnipresente camp

Nonostante la direzione diversa presa da questa stagione, anche in NYC troviamo quell’estetica camp tanto cara a Ryan Murphy e cifra caratteristica di American Horror Story.  Anche se in modo minore rispetto ad altre stagioni, troviamo diversi esempi di camp in AHS: NYC. Basti pensare alla scena in cui Adam è in commissariato, interrogato dai detective, e, improvvisamente, fa il suo ingresso un uomo seminudo, sudato e dal fisico scolpito che, senza un motivo apparente, colpisce violentemente il ragazzo sul viso facendolo cadere a terra. È un eccesso, una rottura con la narrazione normale e un ingresso provvisorio di un elemento apparentemente non sense. Un perfetto esempio di quello stile camp che da sempre caratterizza le stagioni di American Horror Story.

Il finale: Radioactivity

Radioactivity, is in the air for you and me…

“Radioactivity” dei Kraftwerk

L’ultimo episodio di AHS: NYC dura solo 30 minuti e circa 10 di questi (gli ultimi) costituiscono una sorta di videoclip musicale che racconta il triste destino a cui Gino, uno dei pochi personaggi sopravvissuti fino a quel momento, va incontro. La canzone che accompagna questa conclusione – che oltre all’inevitabile dipartita di Gino racconta lo sterminio generale causato dall’AIDS – è “Radioactivity” dei Kraftwerk, gruppo musicale tedesco di musica elettronica.

La parola “Radioactivity” risuona continuamente nel brano e richiama in modo insindacabile le immagini che ci vengono mostrate: l’AIDS che, come le sostanze radioattive, deforma e distrugge il corpo umano rendendolo pressoché irriconoscibile e portando i malati a una morte lenta e dolorosa. Ma il riferimento non è solo questo: la parola radioattività finisce anche per indicare la condizione dei malati di AIDS (e degli omosessuali in generale): marginalizzati, ghettizzati, lasciati morire in cliniche sporche e semi abbandonate, trattati come vere e proprie sostanze radioattive da cui stare alla larga per evitare il contagio. 

Una conclusione malinconica e poetica

American Horror Story: NYC si conclude così, con dieci minuti di poesia pura, di dolore puro, di orrore puro. Dieci minuti in cui Big Daddy, ipostasi dell’AIDS, distrugge migliaia di vite umane, senza alcuna pietà. Dieci minuti in cui vediamo una fila interminabile di individui che camminano in fila indiana cadendo in una fossa scavata nel terreno dallo stesso Big Daddy. È un’immagine atroce, dolorosa di una morte che non sottrae solo la vita, ma anche il nome, il ricordo delle persone stesse, destinate a cadere in una sorta di fossa comune. Dopo essere stati abbandonati con l’arrivo della malattia, sono destinati a non avere nemmeno una degna sepoltura e, di conseguenza, ad essere dimenticati.

L’episodio si conclude con la morte dello stesso Gino che, nonostante la sua lunga lotta per la sopravvivenza, è costretto a soccombere di fronte alla malattia. Lui, però, come capiamo negli ultimi frame in cui Adam si appresta a parlare durante il suo funerale, non verrà dimenticato.

AHS: NYC non è piaciuta a tutti: c’è chi non ha apprezzato il taglio più thriller dato alla stagione, chi ha superficialmente e scioccamente bocciato la stagione in partenza date le tematiche affrontate e infine chi, come me, ha apprezzato a pieno questo esperimento. Le magistrali interpretazioni del cast, una buona fotografia, la colonna sonora, la regia e la narrazione mi portano a promuovere questa stagione a pieni voti. Se in Double Feature ci venivano raccontate due storie le cui conclusioni erano un po’ affrettate, AHS: NYC si prende il suo tempo per raccontare una storia complessa, per approfondire i personaggi e per costruire una narrazione con una conclusione solida e soddisfacente.

VOTO

Classificazione: 4.5 su 5.

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