Venticinque anni fa Pupi Avati tornava al cinema con L’arcano incantatore, riprendendo il filo di quel racconto nero e misterioso interrotto nel decennio precedente per dedicarsi a tempo pieno a quel cinema dei ricordi e del costume italico che l’ha reso inconfondibile come autore nostrano.

UNA TERZA VOLTA SOSPIRATA

Inutile dire che l’evento fu accolto dall’entusiasmo e dalla curiosità di quel pubblico avatiano che si sentiva orfano del lato più oscuro e gotico della creatività del regista emiliano.

Dopo un capolavoro come La casa dalle finestre che ridono, che pian piano iniziava a diventare un vero e proprio cult, ed una pellicola crudele e sorprendente come Zeder, capace di scippare addirittura a Stephen King l’originalità del ritorno dalla sepoltura, non era facile inquadrare quale sarebbe stato il successivo tassello di quel puzzle macabro che Pupi stava componendo parallelamente alla sua filmografia più classica. 

Probabilmente non ci si aspettava proprio un film in costume ambientato a metà del ‘700. Eppure, a voler ben guardare, era proprio quella la naturale estensione di un discorso più ampio su religione e paura, che dura ancora oggi. Tassello dopo tassello.

LA TRAMA

Metà del 1700. Un seminarista deve fuggire dalla città per sottrarsi alle accuse di aver ingravidato e poi indotto all’aborto una giovane. Per cercare un luogo sicuro dove lasciare che le acque si calmino seguirà il consiglio di una enigmatica nobildonna, dandole in pegno una preziosa reliquia, ricordo dell’amata madre.

Giungerà così in un remoto luogo di campagna, per fare da scritturale ad un sacerdote estromesso dalla chiesa per presunte pratiche esoteriche. Avrà quindi inizio la discesa del giovane in un inferno senza fine.

PUPI E LA RELIGIONE

Impossibile non fare il punto sul legame a doppio filo che unisce il cinema di Avati, in particolare quello nero, e la religione. 

Sempre presente, a tratti preponderante, il sacro acquista un peso di rilievo in ogni vicenda narrata dall’autore emiliano. E quasi sempre sono i testimoni in terra della fede, i sacerdoti, il portale che volontariamente o meno permette al maligno di fare capolino. 

L’ambiguità, al principio bonaria, del parroco di La casa dalle finestre che ridono, la curiosità pericolosa negli studi di Paolo Zeder, per giungere all’oscuro Monsignore presso cui il giovane Giacomo trova rifugio ne L’arcano incantatore, un uomo la cui curiosità di studiare l’aldilà ha probabilmente messo in discussione i dogmi ecclesiastici.

Ed eccolo il punto. L’Avati cattolico, indottrinato da una religione che era ben più radicata e intransigente ai tempi della sua fanciullezza, si scontra con l’uomo in continua crescita, la cui curiosità per tutto ciò che è impalpabile lo spinge a farsi domande e a fantasticare sulle risposte. 

Questa può essere, forse, una chiave di lettura del suo cinema a tinte cupe. Una continua lotta tra il bene dato per certo ed un male che, sappiamo, ci attende fuori dalla porta.

La paura è il momento nel quale l’essere umano è più presente a se stesso

Pupi Avati

UN RITORNO CHE CONVINCE

A conti fatti, l’arcano incantatore convince eccome. Il regista ancora una volta riesce a trattare la materia oscura con intelligenza, non lasciandosi mai prendere la mano e mostrando il poco che basta per inquietare senza cadere nel facile spavento.

Le musiche coinvolgenti e ombrose del maestro Pino Donaggio (suo unicum con Avati) sottolineano continuamente quell’atmosfera sospesa tra questo mondo e l’altro che sembra permeare tutta la vicenda.

Se vogliamo essere pignoli, sono proprio quei pochissimi effetti speciali a colpire poco, troppo artificiosi e posticci. Il resto del racconto è solido, interpretato da un Dionisi mai più così convincente e un Carlo Cecchi magnetico, ambiguo e forviante. 

Locations al top, che coniugano al solito la bellezza immutabile dei paesaggi rurali, questa volta dell’Italia centrale, con il senso di solitudine ed oppressione che gli stessi sanno creare in chi li vive quotidianamente.

Carlo Cecchi in una scena del film

UN FILM POTENTE ANCORA OGGI

Da non trascurare, infine, l’importanza intrinseca di questa pellicola di Avati, in un’ottica più generica rivolta al suo filone mistery.

L’arcano incantatore è il nodo centrale di una favola sulla paura che il regista non ha mai smesso di raccontare. Una storia fatta di omertà, perbenismo e sensi di colpa che nulla possono contro gli istinti più bassi del misero essere umano, sempre burattino in mano a qualcosa di più grande.

L’arcano incantatore è il crocevia di quella lotta tra bene e male iniziata nel 1976 in una remota casa di campagna dalle finestre sorridenti e proseguita fino ad oggi nella paludi desolate alle porte della signorile Venezia. In una piccola e meschina Italia del dopoguerra, ostaggio di se stessa, tra ignoranza e ipocrisia, in preda alla superstizione che al diavolo sia meglio dare del Signore, quanto meno per scaramanzia.