L’uccello dalle piume di cristallo e l’inizio del mito

Su Dario Argento è stato scritto praticamente di tutto e i suoi film sono stati sviscerati scena per scena, inquadratura per inquadratura; alcune pellicole vengono ancora oggi usate come materiale di studio nelle scuole di cinematografia. Parliamo di uno dei più grandi registi che l’Italia abbia avuto, un genio visionario che ha sedotto un’enorme schiera di fans almeno fino alla metà degli anni ’80.

Quello che pochi sanno, o hanno rimosso per senso di colpa indotto, è che la carriera del futuro maestro del brivido ha potuto avere inizio solo grazie a una raccomandazione, elargita dal noto produttore cinematografico, e padre, Salvatore Argento. L’escamotage gli permise di ottenere i finanziamenti per girare il suo primo film; con il senno di poi, non possiamo che rallegrarci per il coraggio dimostrato nell’aver voluto puntare sul talento del figlio.

Da quel connubio familiare nacque L’uccello dalle piume di cristallo, uscito nelle sale all’inizio del 1970 e al cui interno sono sintetizzate le varie tematiche che Argento svilupperà nel corso della sua carriera.

Seppure influenzato da alcuni registi, tra i quali non si può non citare Alfred Hitchcock, Il suo cinema opera una cesura netta rispetto agli stili cinematografici di allora e traccia una linea indipendente e fortemente rappresentativa, colma di aspetti sperimentali che definiranno, nel tempo, la sua teoria artistica.

L’uccello dalle piume di cristallo è considerato uno dei capolavori del regista romano e, più in generale, uno dei migliori thriller italiani di sempre.

La trama ruota intorno allo scrittore Sam Dalmas (Tony Musante), in Italia per recuperare l’ispirazione perduta e impiegato presso l’istituto di scienze naturali di Roma. Durante una passeggiata serale diventa testimone di un’aggressione consumata all’interno di una galleria d’arte, vittima una donna per opera di un uomo armato di pugnale. L’aggressore riesce a fuggire e la donna a salvarsi miracolosamente. Dopo essere stato interrogato tutta la notte dal commissario Morosini (interpretato dal bravissimo Enrico Maria Salerno), Dalmas cade nell’ossessione di un particolare che la mente ha registrato ma che non riesce più a ricordare. Pian piano decide di investigare e cercare il colpevole, un serial killer che colpisce in maniera efferata scegliendo solo vittime femminili. Le sue indagini lo porteranno a scoprire verità scomode e a rischiare la morte durante la fuga da un sicario. Un finale a sorpresa chiuderà un cerchio macabro e delirante e permetterà a Dalmas di far ritorno negli Stati Uniti insieme alla sua fidanzata Giulia.

Ma cosa si nasconde dietro le quinte del film?

Conosciamo qualche gustosa curiosità che gravita intorno alla sua realizzazione.

La scelta di un cast internazionale fu dovuta agli accordi con il distributore, la Titanus, che aveva previsto una commercializzazione estera della pellicola. Per questo motivo fu girato in lingua inglese e successivamente doppiato.

I Goblin non erano ancora entrati a far parte dell’universo creativo di Dario Argento, che affidò la colonna sonora a Ennio Morricone.

Il film è il primo della trilogia chiamata convenzionalmente “degli animali”, in cui l’elemento simbolico interviene per creare l’incredibile colpo di scena finale. Le altre 2 pellicole saranno Il gatto a nove code e Quattro mosche di velluto grigio, curiosamente uscite entrambe l’anno successivo.

Dario Argento scrisse la sceneggiatura di base in soli 5 giorni.

Il primo regista a essere contattato fu il britannico Terence Young, famoso per alcuni 007, ma questi rifiutò. Solo in un secondo momento Bernardo Bertolucci contattò il giovane Dario Argento, allora trentenne e con nessuna esperienza di regia alle spalle; grazie all’intervento del padre, Salvatore Argento, che fondò la SEDA spettacoli, la produzione ebbe i finanziamenti per girare.

Le riprese iniziarono nel settembre del 1969 e terminarono 6 settimane dopo. Gli esterni furono girati in gran parte a Roma, nel quartiere Flaminio.

Più volte citato anche dai rispettivi protagonisti, fu il cattivo rapporto instauratosi tra Tony Musante (Alias Sam Dalmas) e lo stesso Argento. Alla base delle incomprensioni c’era il modo in cui il regista decideva di volta in volta come organizzare una scena, che Musante scambiava per improvvisazione e poca professionalità.

Quando il distributore Goffredo Lombardo vide i primi minuti di girato de L’uccello dalle piume di cristallo, espresse tutta la sua insoddisfazione, tentando di far sostituire Argento con il regista Fernando Baldi. Fortunatamente per gli amanti del cinema, la cosa non andò in porto.

Il film rende omaggio (e ne riprende alcune idee) a La ragazza che sapeva troppo (1963) e Sei donne per l’assassino (1964), entrambi di Mario Bava, oltreché al romanzo poliziesco di Fredric Brown, intitolato La statua che urla, pubblicato nel 1949.

Costato poco più di 200 milioni di lire, a fine vita ne incassò oltre 1,2 miliardi, risultando il 13esimo film più visto della stagione in Italia. Il film ebbe un ottimo riscontro di pubblico anche all’estero.

Nel film è già ben delineata la commistione tra cinema e arte, tanto cara al regista. In questo, in particolare, l’aggressione avviene all’interno di una galleria d’arte mentre l’elemento centrale della psicosi dell’assassino è rappresentato dal quadro naif del pittore Berto Consalvi (Mario Adorf).

Ne L’uccello dalle piume di cristallo sono ben presenti gli elementi che caratterizzeranno il suo cinema: uso del punto di vista in soggettiva dell’assassino, primi piani su occhi e visi, ossessioni per i dettagli e la fotografia, avulsione geografica della storia, sketch ironici, relativa importanza dei dialoghi, moventi degli assassini che si originano da profondi traumi, cura maniacale delle scene degli omicidi, rumori sempre amplificati e musiche di atmosfera.

Nella parte del sicario, Argento riuscì a ingaggiare il caratterista americano Reggie Nalder, famoso per aver partecipato, sempre nelle vesti di sicario, al film L’uomo che sapeva troppo (1956), diretto da Alfred Hitchcock.

L’Hornitus Nevalis, il famoso uccello delle steppe che dà il nome al film, nella realtà non esiste. Quello che si vede verso la fine non è altri che una comune Gru.

Nella mente del regista, la trilogia degli animali doveva in realtà essere una quadrilogia, che si chiudeva con un film girato nel 1975. Alla fine, però, Argento cambiò idea e intitolò quest’ultimo Profondo Rosso.

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