Ieri 4 ottobre 2023 è uscito nelle sale Sick of myself. Distribuito da Wanted, noi lo abbiamo visto in anteprima per voi e possiamo affermare che questa pellicola è un’analisi lucida di una delle patologie più diffuse ai giorni nostri: il narcisismo.

Trama

Signe (Kristine Kujath Thorp) e Thomas (Eirik Sæther) sono una coppia caratterizzata dalla competizione reciproca. Intrappolati in una gara di popolarità, i due attuano meccanismi tossici di collaborazione e demolizione. La situazione degenererà quando Signe deciderà di giocare la sua ultima carta: assumere un farmaco illegale con importanti effetti collaterali.

Recensione

Viviamo in una società caratterizzata da contraddizioni e problematiche sociali. E cosa accade quando in una società si disgrega il tessuto sociale? Come avvenuto in Asia durante gli anni 2000, il cinema diventa strumento di indagine, producendo pellicole come The Square, Triangle of Sadness e adesso questo Sick of myself. Nell’era dei social network e della visibilità a tutti i costi, Borgli propone un’analisi lucida sul narcisismo e sulle dinamiche interpersonali.

Gli aspetti tecnici

Per quanto riguarda gli aspetti meramente tecnici, Sick of myself è veramente ben fatto. Una regia elegante e fortemente studiata, in grado di cogliere e seguire perfettamente l’andamento della trama. La fotografia è fredda, come si addice sia all’ambientazione della storia, sia alla psiche dei nostri protagonisti. Vengono inseriti degli sprazzi di colore che hanno una funzione prettamente estetica, coadiuvando il messaggio sotteso di una vita orientata alla mera apparenza. La scenografia è costruita sulla base del gusto artistico del regista. L’arte, infatti, è presente non solo nella vita del fidanzato di Signe, Thomas, che è un designer, ma nell’intera pellicola, creando un’estetica visivamente splendida ma non originale, richiamando film già visti come The Square. Anche l’utilizzo della deformità come vettore è frutto di una conoscenza approfondita della storia del cinema, con particolare riferimento alla visione di Cronenberg.

Per quanto riguarda l’impianto sonoro, l’andamento della trama viene accompagnato da splendide composizioni classiche (Mozart, Bach, Beethoven) che, come anche nel cortometraggio Former Cult Member Hears Music for the First Time presentato al Sundance Film Festival 2020, hanno capacità catartiche. Facendo da sottofondo all’assunzione compulsiva del Lidexol (il farmaco illegale che assume Signe), riescono a creare nello spettatore una dicotomia interna tra il senso di pace generato dalla musica e una sensazione di profondo disagio relativo a ciò cui sta assistendo.

Al di là dei tecnicismi…

Sick of myself è un gioco di parole che ben introduce i temi trattati dal film. Infatti, se una traduzione letterale del titolo è “malato di me stesso”, quella più vicina all’uso nella lingua inglese è “stufo di me stesso”. Kristoffer Brogli, il regista, gioca su questa ambivalenza linguistica per descrivere la trama e l’intento del suo lungometraggio. Se, infatti, il narcisismo è di fatto una condizione che rende i due protagonisti ossessionati da sé stessi, fino a farne ammalare realmente uno dei due, questa situazione si rivela essere una gabbia in cui si è imprigionati. Per la prima volta, la lente di analisi viene spostata dalla percezione esterna alla percezione interna. La storia di Signe, una narcisista patologica, viene narrata dal suo punto di vista. La narrazione dell’intera pellicola è, infatti, organizzata in modo che vi sia una sovrapposizione tra realtà, aspirazioni ed elucubrazioni mentali. Questo ci permette di immedesimarci nella ragazza e di capire quei meccanismi (malati) che la portano a fare ciò che fa.

“Nessuno ha il libero arbitrio, nessuno vuole essere uno psicopatico (…) sto solo dicendo che nessuno vuole avere il desiderio di farsi del male”

  • Signe rivolgendosi a Marte

La lucidità di questa analisi di sé è visibile ad ogni passo della pellicola. Signe ha paura che le persone scoprano come è veramente, ma la sua patologia le impedisce di agire diversamente. Solo quando avrà toccato il fondo sarà pronta a rialzarsi e urlare al mondo “Amo vivere”.

Una piccola confessione

Nel corso della visione è possibile notare come il regista abbia un animo profondamente artistico. Come già anticipato nella sezione dedicata all’analisi tecnica, Borgli fa una innegabile ricerca estetica, riversando nella pellicola il suo personale gusto in fatto di arte. Ma come ogni artista che si rispetti fa anche qualcosa di più, usando la sua arte per nascondere in piena vista una piccola confessione su sé stesso. Sick of myself, infatti, non è altro che un’ammissione di colpa. Al di là della conoscenza profonda di un sentimento che solo chi lo ha provato riesce a cogliere, c’è un dettaglio che non può essere casuale. Signe, infatti, nel momento in cui esce dall’ospedale per la prima volta, chiede a Thomas di farle delle fotografie con le sue nuove cicatrici. Addosso ha una maglietta blu con la scritta ben visibile “Festival di Cannes”. Con questa pellicola il regista si confessa, come prima di lui avevano fatto molti altri, da Lars Von Trier a Gaspar Noè. Raccontando di Signe, racconta la se stesso e la sua natura narcisistica. Come se ciò non bastasse, inserisce un rimando al libro Fame di Knut Hamsun, caposaldo della letteratura nordica in cui l’autore inserisce riferimenti espliciti alle sue esperienze e alla sua figura, di fatto auto-narrandosi.

La maglietta “Festival di Cannes

L’analisi dell’analisi

ATTENZIONE QUESTO PARAGRAFO CONTIENE SPOILER

Arrivati a questo punto è ora di addentrarci all’interno di un’analisi più approfondita di questa pellicola che altro non ha desiderato se non finire al Festival di Cannes.

Il transfert

La storia di Signe è una storia tanto comune quanto difficile da riportare su grande schermo. Serve, infatti, una notevole conoscenza del problema e dell’animo umano per riuscire a cogliere tutte le sfumature che un disturbo come il narcisismo (patologico) porta con sé. Come infatti ci viene sottolineato dalla signora al primo incontro al centro olistico, è facile descrivere una malattia quando essa è visibile. Più difficile quando è qualcosa che ha a che fare con il funzionamento delle nostre menti. Borgli in questo riesce perfettamente. Non solo ponendo l’intera pellicola dal punto di vista della protagonista ma, soprattutto, riuscendo, tramite la sovrapposizione tra realtà oggettiva, realtà percepita, sogni e aspirazioni, a ricostruire quelli che sono i processi e i sentimenti che scattano all’interno di chi soffre di questo disturbo. Vediamo Signe sentirsi minacciata dal successo del partner. Questo la porta ad avvertire in modo pressocché continuo un senso di frustrazione che sfocia, da una parte, nella continua demolizione dei successi di Thomas e, dall’altra, alla continua ricerca delle sue attenzioni.

Proseguendo all’interno della pellicola, scopriamo come questo desiderio incontrollabile di attenzioni da parte del partner non sia altro che il risultato di un transfert. Signe è stata abbandonata dal padre e ha riversato su Thomas il compito della figura paterna. Questo aspetto ci viene evidenziato non solo tramite escamotage più didascalici (la maglietta di Signe con la scritta “Father Figure”, il desiderio di escluderlo da un suo eventuale funerale, il sogno in cui lei partecipa ad un programma tv) ma, anche, con espedienti più sottili.

La maglietta di Signe con la dicitura Father Figure (Figura paterna)
La comparsata del padre durante il sogno di Signe
Il “funerale” di Signe

Nella scena in cui la protagonista torna a casa dopo l’aggressione da parte di un cane ai danni di una cliente del bar dove lavora, mente sulle dinamiche della vicenda per far sì che Thomas si occupi di lei. Ma, ancor di più, questo aspetto è visibile nella scena in cui viene pubblicato l’articolo su Signe e la sua “malattia”. Quest’ultima si commuove fino alle lacrime quando il fidanzato dichiara di essere fiero di lei. Benché sia normale essere felici quando il partner è orgoglioso dei nostri traguardi, il taglio dato dal regista a queste (ed altre) scene rende evidente come Signe veda in Thomas un surrogato della figura paterna. Non possedendo, o credendo di non possedere qualità che le permettano di emergere in un qualunque campo, l’unico modo che ha la ragazza per attirare le attenzioni è la malattia fisica e attivare tutte quei meccanismi di pietismo e pornografia del dolore tanto comuni di questi tempi.

Signe subito dopo aver parlato con Thomas del suo articolo

“Dici tante bugie, la tua personalità non è il massimo, non sei la persona più divertente alle feste, anche il tuo senso dell’umorismo non è il massimo e inoltre non è carino il modo in cui imiti caricature razziste per divertirti davanti allo specchio”.

  • Signe immagina che il dottore le dica tutte le caratteristiche negative che lei vede in sé stessa.

Pornografia del dolore e inclusività

In questo viaggio all’interno della psiche di Signe (e del regista), vengono introdotti anche altri due macro-temi: pornografia del dolore e inclusività. La scelta di assumere il Lidexol, farmaco che le porterà a gravi ed evidenti problemi alla pelle, è una estremizzazione di un fenomeno sempre più comune e terrificante, strettamente legato al mondo dei social network: il capitalismo della pietà. Un fenomeno analizzato anche dalla Social Media Manager e Docente presso la NABA – Nuova Accademia di Belle Arti Serena Mazzini (in arte Serenadoe__):

“Le piattaforme spingono tramite l’algoritmo questi contenuti, che diventano virali anche grazie alla predisposizione voyeristica, un attaccamento emotivo al dolore simile alla pietas di matrice cattolica (…) Minoranze, disabilità, violenze: l’utente si sente in dovere di seguire quei profili per elevarsi moralmente nei confronti di sé stesso e degli altri”

Fonte: Serenadoe__

Signe, conscia di questo meccanismo, si pone nella condizione di attirare l’attenzione su di sé sfruttando il mix di voyerismo e pietas di cui parla la Dottoressa Mazzini. Ma non solo, proprio perché di capitalismo si parla, il fine ultimo della protagonista è rendere la sua storia più conosciuta possibile, in modo da attirare su di sé le attenzioni di una agenzia di moda. Sempre citando la Dottoressa:

“La malattia, il dolore e il trauma diventano precetto identitario e una moneta di scambio con i brand che si vogliono posizionare all’interno di un segmento di mercato difficilmente raggiungibile e che possono contare sulla fragilità emotiva di chi fruisce del contenuto […]. Secondo Nancy Fraser questo è il risultato di ciò che ha definito un ossimoro: il neoliberismo progressista ovvero un’alleanza tra nuovi movimenti sociali da un lato (femminismo, antirazzismo, diritti LGBTQ+) e settori economici simbolici di fascia alta e basati sui servizi dall’altro (Wall Street, Silicon Valley, Hollywood)”.

Fonte: Serenadoe__

In modo evidentemente didascalico e sarcastico il regista affronta questo problema, inserendo Signe all’interno di una campagna pubblicitaria del brand Regardless* (dal Cambridge Dictionary: che non pensa o si preoccupa dei costi, dei problemi o dei danni), alla cui regia vi è un ragazzo con una felpa riportante la scritta “Paris Fashion Week”. Borgli canzona un sistema evidentemente disfunzionale, in cui le dinamiche tossiche persistono (vedi Signe che chiude nel bagno l’altra modella), ma ampliando il bacino di utenza ad un solo e unico scopo: massimizzare i profitti.

Signe e il regista

Il finale

Siamo giunti, così alla conclusione, estremamente metaforica, della storia di Signe. In un ultimo e disperato atto, il nuovo volto di Regardless si trova a dover girare una scena in cui deve recitare la battuta “Regargless vuol dire che mi va bene. Regargless”Senza “scrupoli” vuol dire che mi va bene. Malgrado tutto. Questo è un po’ il senso della frase e della vita della ragazza. Ma è in questo istante, come in un’epifania, che Signe si rende conto di non riuscire a pronunciare quelle parole. Il suo corpo si ribella definitivamente a quello sfruttamento. Signe tocca il fondo e poi deve risalire. Chissà se poi avrà davvero imparato ad amare la vita.

Conclusioni

Sick of myself è una pellicola estremamente interessante, ma soprattutto onesta. Manifesta nel suo intento di essere, in un qualche modo, autobiografica e autoreferenziale analizza un disturbo comune al nostro tempo e i bias che su di esso giocano. Irriverente, divertente riesce ad essere anche visivamente iconica. Recuperarlo in sala è un dovere, in nome del Cinema e soprattutto di quel Cinema che diventa veicolo per l’analisi della società. In un’epoca di narcisi lasciamoci trasportare e, forse, analizzare da un regista che per primo si è messo in gioco.

Classificazione: 4 su 5.

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