“La zona di interesse” (The Zone of Interest), diretto da Jonathan Glazer e fresco di ben cinque candidature ai premi Oscar, è un film che riesce a raccontare la Shoah in modo originale, senza mostrare l’orrore o feticizzare il dolore.

Trama e temi

La zona di interesse, adattamento dell’omonimo romanzo scritto nel 2014 da Martin Amis, racconta la storia di Rudolf Höß, comandante del campo di concentramento di Auschwitz, e di sua moglie Hedwig che tentano di costruire una vita da sogno per i loro cinque figli in una casa che dista pochi metri dal campo. Glazer dirige magistralmente un film che mette al centro l’indifferenza, il silenzio, il privilegio e gli orrori del periodo più buio del ‘900. Una pellicola che ci parla di un passato che non deve essere dimenticato, ma anche di un presente in cui certe dinamiche sembrano ripetersi, seppur in modo diverso.

Una regia magistrale

Il tema della Shoah è stato affrontato molte volte nel cinema, ma a Glazer va indubbiamente riconosciuto il merito di averlo saputo raccontare in modo del tutto inedito. La regia de La zona di interesse è qualcosa di grandioso e meriterebbe di essere premiata agli Oscar. A livello visivo, Glazer utilizza lunghe inquadrature fisse che si mantengono sempre a debita distanza dai personaggi, quasi a rispecchiare uno sguardo anempatico e oggettivo che riflette proprio il punto di vista stesso della famiglia Höß, indifferente (e complice) alla tragedia che si sta consumando intorno alla loro casa.

Suono e immagine, vista e udito

La vera potenza del film sta, però, in uno sconvolgimento della gerarchia dei sensi: La zona di interesse non è un film che va visto bensì che va “sentito”. Glazer, infatti, non mostra niente di ciò che avviene ad Auschwitz ma affida il racconto dell’orrore a suoni fuori campo che accompagnano il film per tutta la sua durata. In questa pellicola, paradossalmente, ad essere protagonista non è l’immagine, ma il suono. L’apertura del film da questo punto di vista è emblematica: lo schermo è nero e a livello sonoro troviamo una vera e propria contrapposizione tra il dolce canto degli uccelli (suono diegetico) e una musica (extradiegetica) che trasmette un senso di angoscia.

Col passare dei minuti questo conflitto si amplifica: le immagini di un affascinante luogo bucolico si scontrano con le raccapriccianti urla che provengono dal campo di concentramento. L’orrore, il dolore e la tragedia ci sono, ma Glazer non li mostra, impedendone la feticizzazione.

La crisi dello sguardo

Da questo punto di vista, La zona di interesse si colloca perfettamente nel panorama del cinema contemporaneo caratterizzato dalla cosiddetta “crisi dello sguardo”. L’occhio, infatti, sembra aver perso le proprie capacità, così come le immagini – soprattutto dopo l’avvento del digitale – non sembrano più in grado di testimoniare la realtà. Questa “perdita” è avvenuta a causa di un sempre più marcato scarto tra visione e conoscenza:

Una volta che l’immagine è entrata nel dominio della simulazione, la perdita ontologica del suo legame con la realtà la rende del tutto inaffidabile e spinge il soggetto scopico a diffidare sempre più spesso dello statuto di verità di ciò che viene captato dagli occhi e dallo sguardo.

Gianni Canova in “L’alieno e il pipistrello”

Non è un caso, allora, che ne La zona di interesse, Glazer si affidi al senso dell’udito per raccontare un orrore storico che oggi, purtroppo, molti arrivano a mettere in dubbio. Lo schermo nero con cui il film inizia è una vera e propria presa di consapevolezza: nessuna immagine sarà mai in grado di raccontare quell’orrore. È come se il regista volesse avvisare lo spettatore, spingendolo a ridefinire la propria gerarchia sensoriale e a privilegiare, per una volta, l’udito.

I suoni d’ambiente

I protagonisti del film, come già detto, sono quindi i suoni. Soprattutto suoni d’ambiente (o suoni-territorio) necessari a “creare un luogo”, marcandolo con la loro presenza continua e onnipresente. Inoltre, riprendendo gli studi di Michel Chion, potremmo definire alcuni di questi suoni, per esempio il canto degli uccelli, “rumori anempatici”, ovvero elementi sonori (frequenti nei film horror) che creano una contrapposizione con eventi terribili in quanto, di fronte a tali accadimenti, essi “continuano a svolgersi come se niente fosse”. Suoni che, quindi, proprio come i protagonisti del film sembrano indifferenti (anempatici, appunto) davanti alle atrocità che la pellicola racconta.

Giorno e notte

A livello visivo, Glazer si limita a mostrare la quotidianità della famiglia Höß. Lo fa sempre utilizzando la telecamera fissa e rendendo protagoniste le geometrie della loro abitazione. Tuttavia, anche le immagini creano una contrapposizione, e lo fanno ribaltando il classico manicheismo che da sempre caratterizza il giorno e la notte. Se le atrocità compiute ad Auschwitz, infatti, avvengono spesso durante il giorno, è la notte, nella messa in scena di Glazer, a regalare l’unica speranza possibile di fronte a tutto quel male. Il regista, infatti, inserisce due brevi scene, girate con una termocamera, in cui si vede una bambina che raccoglie delle mele e le porta all’interno del campo di concentramento, nascondendole tra gli strumenti di lavoro affinché il giorno dopo i prigionieri le trovino.

Sono stati proprio questi brevi inserti – ispirati da una conversazione che lo stesso regista ha avuto con una signora polacca che ha vissuto la vicenda in prima persona – a permettere a Glazer di affrontare le riprese del film, l’unico barlume di umanità di fronte a tutto l’orrore (non) mostrato.

La famiglia Höß

Rudolf Höß e sua moglie Hedwig (interpretati magistralmente da Christian Friedel e Sandra Hüller) incarnano alla perfezione la mentalità che ha permesso che il genocidio potesse avvenire. Rudolf appare spietato, appagato dallo sterminio che cerca di organizzare e gestire nel modo più minuzioso possibile, ma Glazer si rifiuta di rappresentarlo come un semplice folle (“chiamarli mostri sarebbe un modo di sminuire il tutto”, ha affermato il regista). Hedwig, invece, è innamorata della propria situazione di privilegio, talmente tanto da essere incapace di udire le urla strazianti che giungono in casa sua ogni giorno. La donna, infatti, sta vivendo la vita che ha sempre sognato e non le importa quali siano le conseguenze. Hedwig ama la propria casa e il proprio privilegio più di quanto ami suo marito, come dimostra quando si rifiuta di trasferirsi con lui dopo che all’uomo viene affidato un nuovo incarico.

I cinque figli della coppia sono vittime della propaganda nazista: per loro è vietato domandare cosa succede all’interno del campo di concentramento e, affascinati, contemplano i denti delle vittime che il padre porta a casa. L’unico personaggio che dimostra un minimo senso di colpa è la madre di Hedwig: inizialmente fiera della posizione privilegiata della figlia, fuggirà dalla casa incapace di sopportare l’orrore che la circonda. Ma anche lei, come tutti, sceglierà di rimanere in silenzio.

L’orrore nel corpo

Di altissimo livello è anche il finale del film, in cui una scena di Rupert colpito da violenti conati di vomito viene intervallata da alcune riprese che mostrano Auschwitz oggi. È come se il corpo dell’uomo si ribellasse per un attimo alla freddezza e al cinismo della sua mente; come se il corpo avesse la necessità di espellere tutto quell’orrore – che questa volta prende forma a livello visivo – di fronte alla quale la mente è indifferente.

Passato e presente

La zona di interesse è un film che parla di un passato che non deve assolutamente essere dimenticato e che punta anche il dito contro alcune dinamiche che, in modo non troppo diverso, oggi continuano a ripetersi. La famiglia Höß, secondo questa lettura, siamo tutti noi (occidentali) che, pur di non perdere il nostro immenso privilegio, troppo spesso assistiamo a massacri che avvengono vicino a noi (oggi in Palestina e in Ucraina, ma nel recente passato si trovano moltissimi esempi) e davanti ai quali decidiamo di rimanere in silenzio.

L’ultimo lavoro di Jonathan Glazer è un film che tutti devono vedere. La grande impresa del regista sta nell’essere riuscito a raccontare in modo originale e non meno potente gli orrori di un periodo storico da cui l’umanità sembra non aver imparato niente.

VOTO:

Classificazione: 5 su 5.

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