Il 16 giugno 2010, in Serbia, usciva uno dei film più controversi e disturbanti mai realizzati: A Serbian Film. Da allora sono passati quindici anni, ma il trauma, il disgusto e le polemiche che ha generato sono ancora lì, come una ferita aperta nella carne viva del cinema horror estremo.

Non è un film facile da affrontare, né tantomeno da raccontare. È un pugno nello stomaco, una visione che ti strappa via ogni certezza. Eppure, per quanto sia scomodo, A Serbian Film merita di essere riletto oggi con occhi lucidi, lontani dalle reazioni isteriche del tempo. Perché se è vero che l’orrore ci respinge, è anche vero che spesso ha molto da dirci.

Trama

Miloš è un ex attore pornografico, ritiratosi per vivere una vita tranquilla con la moglie e il figlio. Un giorno riceve un’offerta economicamente irrinunciabile: partecipare a un progetto “artistico” che però si rivela, scena dopo scena, una discesa all’inferno. Un inferno fatto di violenza, perversione, controllo e annientamento dell’identità.

Basta così. Il resto è da vedere – o da evitare, a seconda della propria resistenza mentale e morale.

Un film estremo, ma non gratuito

Il regista Srđan Spasojević ha sempre difeso la sua opera come una metafora politica e culturale sulla condizione della Serbia post-bellica. E se si va oltre l’orrore esplicito, il messaggio emerge con chiarezza: A Serbian Film parla di un popolo abusato, manipolato, ridotto a merce. Miloš non è solo un personaggio, è il corpo stesso della nazione: usato, svuotato, costretto a recitare copioni imposti da altri.

È facile bollare tutto come pornografia della violenza. È molto più difficile accettare che quel linguaggio eccessivo serva a comunicare un disagio reale, profondo, collettivo.

Simbolismo e potere: quando il cinema diventa grido

Ogni scena, per quanto insostenibile, è carica di simboli. La pornografia come allegoria della politica, lo snuff come riflesso della disumanizzazione, la famiglia come ultimo baluardo da abbattere per completare la distruzione dell’individuo. Non c’è nulla di gratuito, se si accetta l’assunto che il vero orrore non è quello che si vede, ma ciò che lo genera.

Il film ci sbatte in faccia un mondo in cui non c’è più distinzione tra arte e abuso, tra realtà e incubo. Un mondo in cui il potere si esercita attraverso il controllo assoluto dei corpi e delle scelte. E in questo, A Serbian Film è spaventosamente lucido.

Estetica e regia: l’incubo che si veste da realismo

La regia di Spasojević è fredda, quasi clinica. Nessuna concessione all’estetica horror tradizionale: qui si respira solo disagio, claustrofobia, annullamento. Il montaggio è serrato, l’uso del suono chirurgico, la fotografia scarna. Tutto contribuisce a generare quella sensazione di impotenza e nausea che accompagna ogni fotogramma.

Non ci sono jump scare. Solo una lenta, implacabile discesa nel vuoto.

Curiosità (o leggende metropolitane)

  • Il film è stato bandito in oltre 40 paesi, alcuni dei quali non l’hanno mai ufficialmente distribuito in alcuna versione.
  • In Gran Bretagna fu distribuito solo dopo 49 tagli, per un totale di 4 minuti di film rimossi.
  • Le scene più controverse hanno portato molti festival a ritirare la pellicola all’ultimo momento.
  • Durante alcune proiezioni si sono verificati svenimenti e uscite di massa dalla sala.
  • L’attore protagonista, Srđan Todorović, è noto anche per essere stato batterista di una band punk: un dettaglio che ben si sposa con la natura sovversiva e ribelle del film.

Guardare fa male. Ma serve.

A Serbian Film non è per tutti. Non dovrebbe esserlo. È un film che mette alla prova, che provoca, che sporca. Non ci sono catarsi, né redenzioni. Solo una verità brutale: siamo tutti potenzialmente manipolabili, consumabili, sacrificabili.

A quindici anni dalla sua uscita, resta un’opera che non si può ridurre a semplice shock value. Perché ci sono ferite che devono restare aperte per ricordarci da dove veniamo. E A Serbian Film, nel suo modo sporco e feroce, fa esattamente questo: ci ricorda che l’orrore vero è quello che fingiamo di non vedere.

E che, a volte, il cinema serve proprio a costringerci a guardare.

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