A quasi trent’anni dalla sua uscita originale, nel 1997, Cure di Kiyoshi Kurosawa arriva finalmente nelle sale italiane in una versione restaurata in 4K, a cura di Double Line. Questa proiezione rappresenta un evento straordinario non solo per gli appassionati di cinema giapponese, ma per tutti coloro che sono interessati a esplorare uno dei film più influenti degli ultimi trent’anni.
Trama: La città di Tokyo è sconvolta da una serie di omicidi accomunati da una misteriosa incisione a forma di X sul corpo delle vittime. Gli autori di questi atti efferati sono persone normali senza alcun legame tra di loro. Sul caso indaga il detective Takabe che sospetta che dietro possa esserci un giovane di nome Mamiya, vittima di amnesia ma al tempo stesso dotato di terribili poteri ipnotici.
Kiyoshi Kurosawa
Cure non è solo una pietra miliare nel percorso del regista, ma anche un crocevia fondamentale per la cinematografia giapponese di fine millennio, un’opera che ha plasmato il corso del genere horror/thriller e ha aperto la strada a un’ondata di successi internazionali che hanno definito il J-Horror di inizio 21° secolo. Kiyoshi Kurosawa è una figura cardine nel panorama del cinema giapponese contemporaneo, specialmente per quanto riguarda l’horror psicologico e sovrannaturale. La sua capacità di esplorare la psiche umana, mescolando inquietudine esistenziale con il terrore, lo ha reso uno dei registi più influenti della sua generazione. Cure (1997) è considerato il suo capolavoro, soprattutto per la sua capacità di anticipare i temi e le estetiche che avrebbero caratterizzato i successi internazionali del J-Horror, di registi come Hideo Nakata (Ringu, Dark Water) e Takashi Shimizu (Ju-On). Prima della sua uscita, il genere horror giapponese stava cercando di distaccarsi dai cliché dell’exploitation che avevano dominato la scena cinematografica dei decenni precedenti. Nessun film era riuscito a definire una nuova direzione con la stessa incisività di Cure, un’opera che, pur traendo ispirazione dai suoi predecessori, riesce a innovare il linguaggio del genere con una visione unica e in grado di influenzare tanti registi. Per citarne due: Bong Joon-ho ha inserito Cure tra i dieci film che hanno maggiormente plasmato la sua visione cinematografica, mentre Martin Scorsese lo ha definito un vero maestro della luce, dell’inquadratura e del ritmo.
Prima della realizzazione di Cure, tentativi come Angel Dust (1994) di Ishii o Don’t Look Up (1996) di Nakata avevano sondato nuove strade nell’ambito del thriller psicologico e dell’horror, ma senza ottenere lo stesso impatto. Le riprese di Cure cominciarono nel febbraio 1997, con un budget ridotto e ambientazioni essenziali, limitando l’uso di effetti speciali e ricorrendo invece a una costruzione minuziosa dell’atmosfera e della tensione. Il film fu proiettato inizialmente in sole 22 sale per un periodo di sei settimane, raccogliendo circa 2 milioni di yen, una cifra che rappresentava il doppio del budget investito. Ma il vero successo arrivò attraverso il circuito dei festival internazionali, dove Cure cominciò a guadagnarsi una crescente considerazione tra i cinefili e tutti gli appassionati del cinema di genere. Negli anni seguenti realizzava Séance (2000), un J-horror decisamente interessante, e il più famoso e apprezzato Pulse (Kairo, 2001). Non si possono non citare anche Retribution (2006), con il fantasma della donna con il cappotto rosso, e Creepy (2016), dove tornano tutte le ossessioni di Cure. Il mediometraggio Chime del 2024 è ancora inedito da noi ma è uno dei suoi horror migliori, anche qui molto vicino a Cure per diversi motivi. Cloud invece uscirà questo 17 aprile al cinema, e si tratta di un thriller con più azione, ma che sfocia comunque nell’horror.

La perdità dell’identità
La città che vediamo in Cure è un luogo freddo e spoglio che diventa teatro di una serie di omicidi misteriosi. Le vittime muoiono in circostanze inquietanti, ricorre il segno di una X sul corpo, ma ancora più sconvolgente è il fatto che gli assassini, apparentemente normali cittadini, non sono in grado di spiegare il motivo delle loro azioni. Questo dettaglio sembra suggerire l’esistenza di una forza invisibile che manipola la volontà degli individui, una suggestione che cresce di scena in scena, senza mai essere chiaramente spiegata. Il film si addentra in un territorio astratto, il simbolo della X diventa metafora della cancellazione dell’identità. Come in un gioco di specchi, il film non ha un centro stabile, lasciando lo spettatore intrappolato nello stesso labirinto di incertezze dei suoi personaggi. Diventando una meditazione ipnotica e deliberata sulla violenza, la moralità e la fragilità della psiche umana.
Il detective Takabe (interpretato da un magistrale Kōji Yakusho, che di recente è stato molto apprezzato per Perfect Days) è un uomo tormentato dalla salute mentale fragile della moglie. La sua indagine lo porta a incontrare Mamiya (Masato Hagiwara), un giovane enigmatico con una memoria disturbata che sembra essere la chiave di volta per risolvere il mistero. Il film mantiene un’ambiguità costante: si tratta di pura suggestione ipnotica o di un elemento soprannaturale? L’orrore emerge dalla sottile inquietudine di ciò che si nasconde sotto la superficie, un senso di minaccia che non ha bisogno di manifestazioni esplicite per risultare disturbante. Una progressiva discesa verso la follia psicologica, dove Kurosawa dosa l’inquietudine in modo estremamente sottile, evitando l’uso di jumpscare e preferendo un’angoscia costante.

L’ipnosi come metafora della manipolazione psicologica
Uno degli aspetti più affascinanti e inquietanti di Cure è il ruolo centrale dell’ipnosi, che Kurosawa utilizza come una metafora della manipolazione psicologica. Mamiya, il protagonista enigmatico, è in grado di influenzare e controllare le persone intorno a sé con una capacità che sembra sovrannaturale. Il suo potere non è tanto un’abilità fisica, quanto una suggestione psicologica che corrode lentamente le menti degli altri. Questa dinamica rispecchia un tema fondamentale del film (ma anche di altre opere del regista): la fragilità dell’identità e la vulnerabilità dell’essere umano di fronte a forze esterne che lo spingono verso comportamenti autodistruttivi e incomprensibili. L’ipnosi in Cure non è mai trattata come una semplice tecnica di controllo, ma come un simbolo di una crisi esistenziale che affligge i personaggi. Takabe, nell’inseguire la verità, diventa sempre più soggetto a questa manipolazione, il suo equilibrio psicologico si sgretola man mano che si avvicina a Mamiya, e il confine tra il reale e l’irrazionale diventa sempre più sfocato. Questa discesa nella follia coinvolge direttamente anche lo spettatore, che si trova a riflettere sulle proprie percezioni e sugli effetti che la violenza psicologica può avere sulla psiche.
Non a caso nel film viene menzionato un nome: Mesmer. Franz Mesmer. Medico tedesco nato nel 1734, esperto di alchimia e di esoterismo, musicista e anche affiliato alla massoneria. Secondo Mesmer, il corpo umano era permeato da un fluido sottile, chiamato magnetismo animale, che fluiva attraverso i canali del corpo e influenzava la salute e il benessere. Con l’aiuto di opportune tecniche, il fluido può essere incanalato, convogliato in altre persone, Mesmer sviluppò una tecnica di trattamento chiamata mesmerismo. Usava l’imposizione delle mani, il passaggio di magneti e altre tecniche di manipolazione per influenzare il flusso del magnetismo animale nel corpo del paziente. Mesmer viene considerato il precursore dell’ipnosi, della psicoterapia moderna e della psicologia del profondo. Le sue pratiche, poco dissimili dalla magia, anticiparono anche quello che poi sarebbe divenuto lo spiritismo e altre pratiche di guarigione alternative.

Lo stile visivo di Kiyoshi Kurosawa
Dal punto di vista stilistico, Cure è l’esempio migliore della raffinatezza formale di questo regista. Una regia distaccata che fornisce comunque tutti gli elementi necessari alla comprensione, senza evidenziarli esplicitamente. Un approccio essenziale e minimalista, ma non per questo privo di tutti gli elementi necessari per inquietare. I suoi thriller e horror riescono a essere sempre ipnotici con un senso di alienazione che permea l’intera durata del film. Gli ambienti sono spesso spogli, privi di dettagli che possano distrarre l’attenzione, creando un vuoto che rispecchia il senso di smarrimento e disorientamento dei personaggi. I silenzi prolungati e l’uso calibrato degli spazi, come le stanze vuote o i corridoi deserti, servono a costruire un’atmosfera claustrofobica e alienante. In alcune scene i corpi dei protagonisti e le loro azioni diventano parte di un quadro di solitudine esistenziale, dove ogni movimento sembra essere un passo verso l’oblio. La composizione delle inquadrature, i dettagli di alcuni oggetti sullo sfondo, o le finestre che separano i personaggi, diventano un modo per accentuare la distanza tra l’individuo e la realtà che lo circonda. La messa in scena amplifica questa sensazione di spaesamento in un puzzle di spazi frammentati, come le polaroid che Takabe dispone davanti a Mamiya. L’indeterminatezza domina anche nei momenti più onirici, come la suggestiva scena del bus, dove viaggiano in un luogo che sembra esistere solo al di fuori della realtà.
Cure sfugge alle classificazioni di genere: horror psicologico, thriller, poliziesco, neo-noir, thriller metafisico, non si riuscirebbe a descriverlo usando solo due generi. Il bello del suo cinema è che non gli serve necessariamente qualcosa di horror per raggelare lo spettatore, e in questo caso lo fa con uno stile molto ipnotico. Le inquadrature del mare, quella nel bus, o la scena della casa abbandonata sono tra le più evocative. Questo ritmo lento viene interrotto da tagli improvvisi che amplificano il senso di shock e, al tempo stesso, ci distolgono dalla crescente oppressione narrativa. Le scene più cruente fanno quindi da contrappunto, diventando dei veri e propri momenti di rottura e presa di coscienza. Una violenza che non risulta mai gratuita, gli assassini che vediamo nel film sono tutti persone comuni, che senza una ragione apparente si lasciano sopraffare da una forza oscura.

Un’opera che esplora i limiti della razionalità e il potere della suggestione in una società sull’orlo del collasso. Cure riesce a sottrarsi a tutte le convenzioni tipiche del genere, preferendo una narrazione circolare fatta di ripetizioni e ambiguità. Il finale rimane volutamente aperto, lasciando molte domande senza risposta e invitando lo spettatore a riflettere su ciò che ha appena visto (cosa sempre più rara ormai).
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